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 2020  agosto 09 Domenica calendario

La pandemia accelera il ritorno a casa delle imprese

Il neologismo coniato dai sociologi è “re-imagination”. L’idea è quella di un nuovo inizio nei rapporti tra persone e cose, si traduce in scambi commerciali meno intercontinentali, smart working più diffuso, viaggi di lavoro diradati.
Il Covid-19 impone una nuova griglia di priorità e procedure che rimodulano la vita di persone e imprese. L’emergenza sanitaria accelera un processo già in corso, la ricomposizione delle filiere di produzione. L’avvio della presidenza di Trump aveva già minato l’aggregazione di un ordine politico ed economico globale che ora pare davvero in via di dissoluzione.
Uno degli aspetti chiave di questa stagione è il reshoring, cioè il rimpatrio (totale o parziale) delle imprese italiane, una tendenza accelerata dall’emergenza sanitaria e già effettiva in altri Paesi, raccontata su queste colonne con riferimento al Brasile (si veda il Sole-24Ore del 24 maggio). Difficile prevedere se la globalizzazione sia definitivamente superata o, piuttosto, sia in corso una riattualizzazione. Joseph Stiglitz, Nobel per l’Economia, già nel 2002 ne aveva scritto un “de profundis”, un libro dal titolo “La globalizzazione e i suoi oppositori” nel quale, in modo implacabile denunciò “il gioco sporco”, “le carte sempre truccate a favore di qualcuno e a sfavore di altri”.
Ora però anche se l’orizzonte previsivo è oscurato dalla pandemia, pare sempre più nitida la tendenza delle imprese al rimpatrio: la logistica, i costi elevati di trasporti e procedure, le difficoltà di approvvigionamento sono i fattori chiave che inducono a una progressiva marcia indietro, una contro-delocalizzazione. È quanto emerge dal rapporto «il Reshoring manifatturiero ai tempi del Covid-19, trend e scenari per il sistema economico italiano», elaborato da Paolo Barbieri dell’Università di Bologna, Albachiara Boffelli dell’Università di Bergamo, Stefano Elia del Politecnico di Milano, Luciano Fratocchi dell’Università dell’Aquila, Matteo Karlchschmidt dell’Università di Bergamo.
Decisioni a breve termine
I piani di investimento delle aziende sono a 3-5 anni e non è sempre facile stravolgerli.
«Il Covid-19 – spiega Fratocchi – sta avendo e avrà effetti sulle scelte localizzative delle attività produttive e di gestione delle forniture. Nel breve periodo (entro un anno) si sono già registrati casi di rilocalizzazioni nel Paese di origine dovuti all’impossibilità di utilizzare la propria capacità produttiva disponibile in Cina o di acquistare da fornitori cinesi». E allo stesso tempo si valuta la possibilità di «cogliere opportunità di mercato per prodotti ad alto valore aggiunto precedentemente posti fuori mercato dalla concorrenza dei Paesi low cost».
Guardando all’Italia, sono già 175 le decisioni di reshoring registrate negli ultimi anni e – secondo gli economisti che redigono il rapporto – l’accelerazione è evidente. «Tra le possibili conseguenze di lungo periodo del Coronavirus – spiega Elia del Politecnico – vi è la riconfigurazione e l’accorciamento delle catene del valore, con l’obiettivo di renderle più resilienti e più sostenibili: si tratta dunque di una opportunità unica per il nostro Paese, che dovrebbe cercare di cogliere con politiche volte a favorire il rientro di alcune attività produttive e accogliere quelle di altri Paesi che decidono di ricollocarsi».
Decisioni a medio/lungo termine
Le tipologie di rientri più prevedibili sono tre: a) Revisione in un’ottica di risk management. Ovvero spostare parte della produzione in Italia per bilanciare i rischi di monolocalizzazione delle attività produttive. b) Ripensamenti di filiera: è il caso del settore “lusso”, alcuni imprenditori hanno dichiarato che è “maturo” il tempo per la rilocalizzazione in Italia della produzione di seta e di tessuti tecnici. c) Rientri strategici. In questa ottica il Giappone sovvenzionerà fino al 70% dei costi di ricollocazione sostenuti da piccole e medie imprese produttrici di mascherine, disinfettanti, tute protettive, respiratori e materiali per la produzione di medicine.
Il rallentamento del moltiplicatore del commercio internazionale è evidente. In passato, per ogni punto percentuale di crescita del Pil si registravano 2 punti percentuali di crescita del commercio internazionale, (coefficiente di elasticità pari a 2), dal 2008 il rapporto si è stabilizzato (con coefficiente di elasticità pari a 1).
Europa e Italia
Ue ha considerato il reshoring come una delle possibili strategie per favorire il ritorno alla manifattura a un livello pari al 20% del Pil europeo. Non esiste ancora un vero e proprio piano europeo per il reshoring ma iniziative di singoli Paesi: la Francia, ad esempio fa leva sul “Made in France effect” e mette a disposizione numerosi incentivi fiscali. Oltre ad aver identificato tipologie di reshoring (tactical, home e development) coerenti con diverse dimensioni e strategie aziendali. L’Italia si caratterizza per una linea politica meno conciliante. Esistono infatti diversi fattori che scoraggiano il rientro di imprese. Tra questi la elevata pressione fiscale, la burocrazia, l’inefficienza giudiziaria e gli alti costi dell’energia. Inoltre non esistono vere e proprie politiche nazionali pro-reshoring, anche se vanno segnalate iniziative a livello regionale, per esempio in Emilia Romagna.
Negli ultimi tempi si moltiplicano i casi di rientro, tra questi vi è Coccato e Mezzetti, azienda di Novara attiva nel settore sanitario ha riaperto in Piemonte, così come Victoria, azienda lombarda del settore ciclistico. La tendenza al rimpatrio è comunque marcata e i casi annunciati sono molto sottostimati rispetto a quelli effettuati anche perché le politiche aziendali prevedono “decisioni a 3-5 anni” non immediatamente revocabili.
Globalizzazione addio?
Il dibattito è acceso e il virus ne ha spesso esacerbato i toni. Lo stato di eccezione utilizzato come paradigma normale di governo non ha migliorato la comunicazione. Adriana Castagnoli, storica ed esperta di geopolitica, spiega che «la globalizzazione intesa come frammentazione del processo produttivo e localizzazione dove è più efficiente in termini di costi, sembra finita. Eppure, non per tutti. Le aziende che producono per il mercato cinese, continueranno a espandere là il loro fatturato per evitare l’incertezza delle tariffe doganali. Le più avanzate nell’hi-tech, come i produttori di auto a guida autonoma, robotica e internet delle cose, credono che la Cina sia il mercato del futuro».
Impossibile effettuare previsioni ma l’ironia di David Harvey, sociologo dell’Università di Oxford, è pungente e illuminante: «Guardando attraverso la lente delle rivalità geopolitiche delle superpotenze non possiamo dimenticare che la crisi del capitalismo mondiale, nel 2008, è stata superata grazie alla Cina, Paese comunista».