Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2020
Il mondo è impreparato a distribuire i vaccini
Il D-Day del vaccino che dovrebbe salvare il mondo dal “nemico invisibile” potrebbe richiedere la mobilitazione di ottomila giganteschi aerei. Più probabilmente del doppio. Squadroni quali quelli impegnati dagli alleati nel D-Day della Seconda Guerra Mondiale. In questo caso, le stive sarebbero colme di un antidoto per il coronavirus, sufficiente per almeno metà della popolazione mondiale considerando che ciascun velivolo conterrebbe un milione di dosi e che queste potrebbero dover essere ripetute.
Gli ostacoli da superare, per aziende e governi, sulla strada della soluzione alla più devastante pandemia da un secolo sono molti. I potenziali vaccini – 160 in tutto in preparazione, dei quali 25 in fase di studi clinici e una manciata allo stadio finale – devono tuttora dimostrare oltre alla sicurezza anche l’efficacia, tra timori che non superi il 50% e una tecnologia, l’mRna, al primo vero battesimo.
Sorgono interrogativi su produzione di massa e conservazione, su appositi sistemi di refrigerazione, risolti solo sulla carta. E la corsa frenetica vede in gara più Paesi guidati da interessi contrastanti: non solo Stati Uniti ed Europa ma anche Cina e Russia, con ambizioni di ampliare la loro influenza e sospettate di ricerche – Mosca ha promesso campagne di vaccinazione da ottobre – meno che adeguate.
Ma è la necessità di una straordinaria (e assente) rete logistica e di distribuzione, privata o pubblica, a far scattare oggi l’allarme, con le grandi potenze che rischiano di essere gravemente impreparate; fiale e siringhe fino al personale sanitario e all’effettiva inoculazione. «Si parla tanto di sfide scientifiche ma – ha ammesso il chief executive del colosso farmaceutico Merck, Kenneth Frazier – un problema ancor più complesso è la distribuzione. Serve un vaccino prodotto e distribuito ovunque» perchè protegga davvero. Errori e ritardi nel trasporto e nella consegna, probabilmente davanti a diversi vaccini dai requisiti diversi, renderebbero inservibili le dosi. Né è chiaro in quale modo delicate dosi possano raggiungere territori remoti, spesso serviti unicamente da droni.
Qualunque alleanza da D-Day inoltre latita, ostaggio di crisi e tensioni internazionali. L’infrastruttura dei trasporti e della logistica è stata seriamente indebolita dalla recessione. Mentre il nazionalismo è in ascesa anche sui vaccini, con la minaccia di piegare la catena di forniture globali ai voleri di singole capitali. Nel clima di scontro Washington ha accusato Mosca e Pechino di operazioni di spionaggio e furto di proprietà intellettuale nella ricerca sul virus. «Minacce sistemiche alla salute sono i temi meno incoraggianti quando si tratta di cooperazione globale», ha commentato Simon Evenett, docente dell’Università svizzera di St. Gallen, specializzato in conflitti commerciali. Lo spettro di “My country first”, negli Usa e altrove, è stato evidenziato anche dalla prestigiosa rivista Foreign Affairs.
La gara verso un traguardo scientifico, medico e umanitario ha così assunto i contorni di battaglia geopolitica, che si intreccia con le strategie delle imprese protagoniste della ricerca già al centro di complesse trame tra concorrenza e partnership. La britannica AstraZenaca, ad esempio, ha attività americane, un accordo con la Oxford University e collabora con l’italiana Advent-Irbm. La statunitense Pfizer lavora con la tedesca BioNTech. La “temperatura” sull’emergenza-vaccino sta salendo a Washington: una recente audizione al Congresso ha messo sotto torchio i vertici di numerose case farmaceutiche, a cominciare da AstraZeneca e Pfizer, fino a Johnson & Johnson e Moderna su produzione negli Usa e approvvigionamenti all’estero.
Queste e altre società, tra le quali Novavax e GlaxoSmithKline, hanno ricevuto fondi federali da una speciale iniziativa del governo statunitense per sostenere lo sviluppo di vaccini battezzata Operation Warp Speed, che finora ha sborsato 9 miliardi di dollari. L’Europa ha da parte sua varato la Inclusive Vaccine Alliance con Germania, Francia, Italia e Olanda per migliorare la propria posizione nello sprint per l’antidoto.
Nel clima di scarsa cooperazione mondiale questi programmi pubblici – stimolo alla ricerca con garanzia di assicurarsi milioni di dosi – rischiano tuttavia a loro volta di emarginare o penalizzare regioni e nazioni più povere, di ignorare priorità che richiedono di intervenire su scala globale anzitutto tra fasce di popolazione, professioni e zone più a rischio se si vuole fermare il contagio. La Oms e altre organizzazioni hanno dato vita al progetto Covax per facilitare finanziamenti e distribuzione equa di un vaccino. La storia insegna che questa è una strada in salita: quando nuovi cocktail di farmaci trattarono con successo l’Hiv nel 1996, occorsero sette anni perché fossero disponibili in Africa, il continente più devastato dal virus.
Gli stessi Stati Uniti sono, al loro interno, un microcosmo di incognite nella distribuzione legate a diseguaglianze e carenze del sistema sanitario. Più dei movimenti No vax, si teme la difficoltà di raggiungere fasce disagiate e minoranze etniche. Afroamericani e ispanici sono le principali vittime del coronavirus ma sono stati quasi ignorati negli studi: la biotech Moderna inizialmente ha arruolato il 90% di volontari bianchi. Una lunga tradizione di abusi e crudeli esperimenti medici ha lasciato ferite profonde nelle comunità afroamericane (su tutti il Tuskegee Study sulla sifilide condotto tra il 1932 e il 1972): nei sondaggi solo metà degli afroamericani accetta l’idea del vaccino contro il 75% dei bianchi.
La fiducia, tra le minoranze etniche ma non solo, rischia di essere erosa ulteriormente da polemiche sui guadagni delle case farmaceutiche e da costi e prezzi poco trasparenti, finora ipotizzati da 4 a 37 dollari a dose (Moderna). Le società quotate in Borsa e impegnate sui vaccini hanno già visto la loro market cap crescere di 120 miliardi da febbraio.
Soprattutto sono però i fallimenti dell’amministrazione di Donald Trump nella gestione del Covid-19 a pesare sul futuro del vaccino. Si è impegnata a offrire 300 milioni di dosi entro gennaio ma ad oggi mancano dettagli sui piani per realizzare l’obiettivo. Il Pentagono potrebbe mobilitare soldati e la Civil Reserve Fleet, un programma del 1951, che arruola per ragioni di sicurezza nazionale velivoli commerciali, nato sull’onda del ponte aereo di Berlino. Di recente è stata immaginata una joint venture Difesa-Sanità. Ma i militari non hanno esperienza di iniziative di vaccinazione. E la Casa Bianca è reduce da mancati sforzi nazionali sulla diagnosi del virus, le forniture di equipaggiamento protettivo e l’invio di un farmaco considerato tra i pochi utili quale il Ramdesivir. Tanto che l’Associazione dei governatori degli Stati, democratici e repubblicani, ha denunciato «l’elevata incertezza» e messo in dubbio l’esito di quella che ha definito «la più grande campagna di vaccinazione mai intrapresa». Per gli Stati Uniti e per il mondo.