Perché tornare nuovamente su Pasolini?
«Non sopportavo più la vulgata attorno alla sua morte e alle trame politiche che l’avrebbero determinata. Al santino per devoti che se ne è fatto. E dall’altro i detrattori, coloro per i quali Pasolini, insopportabile esibizionista, non era un granché come poeta, come regista non ne parliamo e da scrittore ci ha dato solo romanzi brutti, incluso l’illeggibile Petrolio. Ho scritto il libro contro tutto questo».
Ti farai molti nemici soprattutto tra quelli che amavano il suo accorato discorso sulla scomparsa delle lucciole. Cosa pensi del suo rapporto con la modernità?
«Pasolini sta dalla parte dei tradizionalisti, non da quella dei reazionari. Difende forme di vita, non rapporti di potere. E non penso proprio che fosse un nemico del moderno e del contemporaneo. Era un nemico dell’ideologia progressista che confonde lo sviluppo morale dell’umanità con l’aumento del benessere dovuto all’innovazione tecnologica».
Che hai contro il benessere?
«Ben venga se allevia l’antica povertà delle classi subalterne italiane. Ma perché deve essere distrutta alche la loro cultura?».
Che Italia ha raccontato?
«Meschina e risentita, povera e rabbiosa, sempre in mano a schiere di fotocopie manzoniane di Don Rodrigo, Don Abbondio, Azzeccagarbugli e Don Ferrante. Un’Italia, la cui speranza di salvezza è riposta negli emuli del cardinal Borromeo, Fra Cristoforo e l’Innominato. Tanto ci sarà la provvidenza, o magari lo "stellone". Mai una visione. Mai uno scarto. Mai uno slancio verso il futuro. Siamo un paese costantemente in mano a una piccola borghesia terrorizzata dalla proletarizzazione e dal diventare l’ombra di se stessa».
L’ombra è un territorio che ti interessa esplorare?
«È il mondo incerto e dubbioso su cui parte della filosofia del Novecento ha riflettuto. Contro il trionfalismo della metafisica delle epoche passate contrappongo lo scacco, la difettività, la sofferenza e la morte, come le cifre più autentiche dell’umano. Già Giordano Bruno era consapevole che la conoscenza umana è umbratile, chiaroscurale, non guarda in faccia le idee, ma siede nella loro ombra».
Perché l’ombra dovrebbe essere più persuasiva della luce?
«Perché la metafora della luce suggerisce verità incontrovertibili e accecanti. In realtà, come ci indica Paul Celan, perfino dopo Auschwitz è possibile prendere ancora la parola, ma alla condizione di non dare giudizi ultimativi. Dice un suo verso: "Parla anche tu, / parla per ultimo, / dì la tua sentenza. / Parla. / Ma non dividere il sì dal no. / Dà alla tua sentenza anche il senso, / dalle l’ombra". Nell’ombra si nasconde la molteplicità delle nostre vite».
Di qui l’autobiografismo in quello che scrivi di te e degli altri?
«Non si può che essere autobiografici quando si scrive.
Che cosa sono i libri di Derrida, Deleuze, Foucault, ma anche di Benjamin o Wittgenstein, e a maggior ragione di Nietzsche, se non autobiografie mascherate? Se non nei modi per salvare la vita in ciò che ha di più caduco e marginale, effimero e insignificante, addirittura di falso e di ingannevole?».
Vuoi dire che ogni volta che si parla, si parla sempre di sé, del proprio fallimento?
«Proviamo e rendere pubblica la nostra esistenza, nella convinzione che qualcuno ci capisca. Ed è raro che accada».
Dove sei nato?
«A Napoli. Famiglia medio borghese. Padre medico, madre insegnante elementare; ma dal lato paterno con antenati ingombranti: i tre fratelli Moroncini, professori di licei classici, napoletani, letterati e filologi, esperti di Leopardi. Fra loro, Francesco, il più bravo forse, cui fu affidata negli anni Trenta la prima edizione nazionale delle opere del poeta».
Hai seguito la scia umanistica.
«Con quelle premesse o diventavo uno sbandato o un professore. Sono diventato professore che poi di questi tempi vuol dire uno sbandato. Mai avuto scelta: studi classici al liceo, lettere all’università, opzione per la filosofia, insegnamento universitario, a Messina e a Salerno. Oggi, come si dice in linguaggio burocratico, in quiescenza».
Ti ha pesato lasciare l’università per raggiunti limiti.
«L’università è stata asfaltata da anni di riforme inutili, velleitarie, controproducenti e in ultima analisi cervellotiche. Non ho nessun rimpianto. Nessun grazie da esprimere né da ricevere».
Neanche uno?
«Un grazie, certo, ad Aldo Masullo. Il solo mio maestro. Gli altri sono stati influenze, compagni di viaggio, suggestioni culturali».
Tra queste suggestioni riconosci un ruolo a Jacques Derrida. Cosa ha avuto di così importante?
«Volevo farla finita con la metafisica e i grandi sistemi di pensiero e Derrida aprì un varco nella mia insofferenza intellettuale di allora. I suoi punti di riferimento – Nietzsche, Husserl, Heidegger – erano oscuramente anche i miei. Il contesto del suo pensiero era fitto di relazioni: con la psicoanalisi attraverso Freud e Lacan; con lo strutturalismo mediante Levi-Strauss; con la grande critica letteraria: Bataille e Blanchot. È con questo bagaglio suggestivo di informazioni che andai a incontrarlo e ad ascoltarlo».
Dove?
«In una chiesa sconsacrata di Firenze. Era il 1982. Tenne una conferenza dedicata alla cenere. Sarà stata quella parola che svelava cose a me nascoste, o quell’aria religiosa che il luogo continuava a emanare, però mai mi era accaduto di partecipare a un clima così raccolto e caratterizzato da una rara intensità emotiva e intellettuale. Quella conferenza sulla cenere divenne una specie di ossessione filosofica».
In che senso?
«Avevo sotto gli occhi la cenere delle mie sigarette fumate compulsivamente, ma anche la cenere dei forni crematori e quella che si confonde con la polvere. Scoprii che anche Walter Benjamin parlando dell’opera d’arte, paragonava il lavoro del critico ai resti di un rogo, a qualcosa che continua a bruciare e a covare, nonostante tutto, sotto la cenere. E in questo contesto è nato il mio libro Il discorso e la cenere che uscì per Guida nel 1988».
Nel 2006, Quodlibet lo ha ripubblicato. Con un sottotitolo: "Il compito della filosofia dopo Auschwitz".
Quale sarebbe questo compito?
«L’intento è di decostruire ciò che gli storici credono di sistematizzare, basandosi sui criteri standard della logica occidentale, per cui è sufficiente l’adeguazione tra l’intelletto e la cosa per enunciare la verità. Non si può dimostrare alcunché di Auschwitz se non si cambia lo statuto della verità. Perciò, o la verità diventa cenere o non potrà mai testimoniare per i ridotti in cenere».
È un’affermazione complicata. Prova a scioglierla.
«O la verità brucia il suo potere di evidenza, di affermazione stentorea, di vocazione alla violenza, che è la stessa che i nazisti applicavano nei riguardi degli ebrei, oppure di Auschwitz e degli altri campi di sterminio non capiremo cosa davvero si è deposto sull’abisso.
Continueremo a indignarci, certo. Ma senza neppure sfiorare ciò che quell’evento nasconde: la radicalità della specie umana. Il suo farsi estrema nel male. Robert Antelme e Primo Levi hanno provato a indicarci un percorso nato dall’esperienza del campo. Un racconto indicibile, dove tutte le differenze si annullavano, e per questo a lungo quella storia non fu creduta».
Come giudichi la compromissione di Heidegger col nazismo?
«Ho sempre pensato che porre il problema dell’adesione di Heidegger al nazismo in termini di moralità privata fosse un errore. Così non si esce dalla falsa alternativa secondo la quale o era un filosofo e allora non poteva essere nazista, o era nazista e allora non poteva essere un filosofo. La domanda vera è: che cosa è stato mai il nazismo per cui un grande filosofo come lui possa aver deciso di aderirvi? Che rapporto c’è tra la filosofia e il nazismo? Emmanuel Lévinas lo ha detto nel 1934: esiste una filosofia nazista».
Lévinas era un ebreo lituano, parlò più precisamente di "filosofia dell’hitlerismo". Non è un po’ strano
accostare il più paranoico e violento dei dittatori con la più nobile tra le discipline umane?
«Secondo Lévinas l’hitlerismo era il risveglio dei sentimenti elementari capace di aggredire i principi che regolano una civiltà. Perciò, mettere in causa l’umanità stessa dell’uomo, come fece il nazismo, era un problema filosofico prima ancora che storico. Qualcosa che ci interpella ancora oggi».
Fu una profezia filosofica.
«Che nessuno allora capì perché nessuno seppe vedere il lato rudimentale efficace e perverso della filosofia di Hitler».
Un pensiero si può cogliere dal lato della psicosi, ma anche da quello della malattia. Autori come Nietzsche, Dostoevskij, Leopardi li hai interpretati dal versante delle loro fragilità fisiche e mentali. Per ricavarne cosa?
«Per verificare quanto nella modernità la vita si caratterizza come scacco, privazione, dolore. Diceva Nietzsche che per avere una grande salute, ossia per essere creativi, bisogna prima diventare maestri in malattia. Fisica o mentale non importa».
E che ne è della felicità?
«È più attributo che sostanza. Siamo felici, un attimo dopo tutto sparisce. La felicità è la condizione meno stabile che si conosca».
Forse è questo il suo fascino.
«Il sogno delle utopie è provare a rendere stabile l’instabile. Missione impossibile e oltremodo pericolosa».
Sei stato malato. Come hai vissuto questa esperienza?
«Sono ancora malato. O meglio ora sto bene, ma è relativo. Ho scoperto un tumore al polmone. Nonostante l’operazione riuscita e i successivi controlli, tutti finora negativi, sono comunque entrato nell’orbita della malattia. È come stare dalla parte sbagliata della vita.
Vedi le cose che non vedevi prima. Pensi le cose che non pensavi prima. Ho accentuato la voglia di scrivere e di produrre. Mi auguro solo che il fisico regga il più possibile».
C’è un Dio al quale ti appelli?
«C’è stato fino ai 17 anni, più per effetto dell’educazione che per altro. Poi è subentrato un tranquillo ateismo. Il che non consiste nel negare che dio esista, ma nel sapere, come dice Lacan, che dio è inconscio. Crea il reale e l’immaginario. Per cui piena comprensione dell’esperienza religiosa come esperienza dell’alterità».
Sei l’opposto di come Napoli vive il rapporto con il sacro, cioè prossimo fino all’identificazione.
«A Napoli sono nato, vissuto, ho studiato, ci vivo ancora e non ho mai pensato di andare via, eppure non ho nessun rapporto con la cosiddetta "napoletanità", che comprende anche il rapporto con il sacro. Non sono neppure tifoso, che è un modo di ribadire il sacro nel profano o viceversa. Ne deduco che o sono un napoletano atipico o il discorso che Napoli produce incessantemente su se stessa è o falso o ideologico. Non c’è nulla di eccezionale a Napoli, diciamolo una volta per tutte».