Robinson, 8 agosto 2020
Goya va alla guerra
«Quando tu harai imparato bene prospettiva, et harai a mente tutte le membra et i corpi delle cose, sii vago nel tuo andar a spasso, vedere e considerare i siti de gl’huomini, nel parlare, o nel contendere, o nel ridere, e azzuffarsi insieme, e quelle notare con brevi segni in tuo picciol libretto, il quale tu debbi sempre portare teco». In questo passo Leonardo raccomanda ai pittori di uscire dai loro studi e di immergersi nella vita, di guardare con i propri occhi le persone e i contesti. Devono cogliere l’essenza del principio vitale, fissandola con schizzi e abbozzi («brevi segni» ) in un taccuino portatile, che era da tasca, borsa o cintura. Con tali parole dimostrava di aderire a una pratica che era già stata introdotta nella Firenze della metà del ’ 400, come dimostrano i fogli di Maso Finiguerra al Louvre e agli Uffizi, che sono quanto resta di un quaderno in cui si descrivevano, appunto, «i siti de gl’huomini». Era una consuetudine che sanciva il passaggio tra due diverse mentalità: da quella dell’artista-artigiano a quella dell’artista intellettuale, che si riconosceva la capacità di ricreare una realtà verosimile. Della prima sono espressione codici come il Taccuino di disegni di Giovannino de’ Grassi alla Biblioteca Civica di Bergamo, di fine ’300, e i volumi di Jacopo Bellini – il padre di Gentile e di Giovanni – al Louvre e al British Museum, della metà del secolo seguente. Il taccuino di Bergamo ci fa entrare in un mondo tardo- gotico stregato dalla bellezza della forma, che sia di fiori, belve o dame, dove persino le lettere dell’alfabeto si animano e trasmutano, in una dimensione onirica che anticipa Bosch. I grandi fogli di Jacopo – gelosamente custoditi dai figli, come se fossero la porta che li poteva ricondurre all’interno della mente del padre – spalancano visioni in bilico tra Rinascimento e Pseudo- Rinascimento, con composizioni infarcite di studi dall’antico e dal naturale, realizzate dal maestro nella solitudine intellettuale del suo studio.
Che belli sono questi “Libri disegnati”, e che rari. Poterli sfogliare è un privilegio di pochi, nei grandi Gabinetti di disegni e stampe del mondo. Anche i fogli sciolti parlano con immediatezza, ma quando ti cali in queste correlazioni visive realizzate dal medesimo maestro, è come essere ammessi a una lezione privata sul suo modo di percepire le possibili declinazioni del reale. Tra il tardo Medioevo e l’Ottocento ne furono realizzati moltissimi, ma solo una minima parte è giunta fino a noi, perché divorata dall’uso nelle botteghe e fatta a pezzi dal collezionismo privato. Ciò avvenne a partire dalla metà del ’ 500, quando Giorgio Vasari nelle Vite insistette sull’importanza di conoscere i disegni dei principali artefici. Lui stesso ne fu un collezionista accanito e nei secoli successivi sui suoi passi si posero raccoglitori bulimici, come il cardinal Leopoldo de’ Medici, nel ’600, e il patrizio veneziano Zaccaria Sagredo, nel ’700.
Tra le centinaia di migliaia di fogli antichi conservati in musei e collezioni del pianeta, si cela un numero inconoscibile di frammenti dei Libri disegnati, che la filologia riconnette a fatica comparando stili, formati, carte, filigrane, tracce di legature, iscrizioni e provenienze. Ma i pochi esemplari pervenutici integri, o quasi, hanno del miracoloso, perché sono – letteralmente – dei libri narrativi per immagini.
Ancor più numerosi sono i quaderni in cui s’indaga la figura umana: partendo dall’antico, soffermandosi su modelli più o meno nudi, per giungere ai ritratti veri e propri ( Ambrogio Figino; Federico Barocci, Palma il Giovane…). Non mancano gli zibaldoni eruditi. Con lo sketchbook di Antoon van Dyck al British Museum ci troviamo, ad esempio, di fronte ai promemoria dei quadri e dei disegni che più lo colpirono nel corso del suo soggiorno italiano ( tra il 1621 e il 1627). Se per ognuno di questi artisti l’analisi di un Libro disegnato consente di mettere meglio a fuoco aspetti specifici della loro produzione, ve ne sono alcuni che rivelano versanti altrimenti inconoscibili della loro parabola creativa ed esistenziale. Uno dei casi più eclatanti è quello di Francisco Goya. Di lui restano ben otto quaderni, che costituiscono una sorta di binario parallelo, e a tratti indipendente, della sua attività di pittore e incisore. Il più toccante è senza dubbio il cosiddetto Cuaderno C, realizzato tra il 1814 e il 1823, negli anni terribili che seguirono l’occupazione francese della Spagna. Di formato quasi tascabile, esso si componeva di 133 fogli, di cui 120 conservati al Prado, altri cinque all’Hispanic Society of America, al Getty di Los Angeles, al British Museum e in una collezione privata, mentre 13 sembrano scomparsi. È stato di recente presentato, assieme al meglio della sua produzione grafica, in una mostra organizzata dal Prado. Ora però il medesimo museo, assieme con Skira, gli dedica un’edizione fedele ( in cinque lingue e con un testo di José Manuel Matilla Rodríguez), che lo risarcisce dei fogli mancanti ad oggi localizzati. In esso sfilano mendicanti, immigrati, ballerine, anacoreti, contadine, madri, ubriachi, impostori, matti, intellettuali, prigionieri, vittime, carnefici… Quasi ogni foglio è accompagnato da un icastico commento dello stesso Goya e si capisce che di norma nasceva da un incontro visivo. Ormai vecchio, disilluso e malato, Francisco usciva dalla sua stanza e osservava uomini e donne, cercando di cogliere il senso del loro destino, in bilico sul nulla. C’è da credere che Leonardo avrebbe annuito.