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 2020  agosto 08 Sabato calendario

Jean- Henri Fabre, il signore degli insetti

Poiché siamo una specie che legge, il mondo si è sempre presentato a noi uomini come un testo senza confini, e decifrarne i caratteri è la nostra sfida. Questa limpida metafora ebbe le sue prime manifestazioni nelle riflessioni dell’Antica Grecia e ha comunemente forma nella retorica del Talmud e dei padri della Chiesa cattolica. Con il passare delle epoche, i lettori hanno trovato le loro idee dell’universo scritte nelle striature tigresche della Terra e nelle macchie di leopardo del cielo, «legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna». Nel diciassettesimo secolo, Baruch Spinoza sintetizzò il duplice libro divino nella famosa massima Deus sive natura, ” Dio o [ in altre parole] Natura”. Secondo Spinoza, Dio e Natura erano due edizioni di un medesimo testo.
Jean- Henri Fabre, professore del XIX secolo, fisico, botanico, chimico ma più di ogni altra cosa entomologo, fu uno dei lettori più appassionati del Libro della Natura. Di umili natali, autodidatta tenace, a diciannove anni Fabre riuscì a ottenere la licenza per insegnare e trovò lavoro nel dipartimento di Aveyron di cui era originario, per spostarsi in seguito in Corsica e ad Avignone. Ovunque andò, studiò, osservò e svolse esperimenti. Seguace di Darwin, rimase nondimeno un cristiano sincero, e cercò di mettere in relazione tra loro la parola di Dio e le incarnazioni terrestri della stessa. Fiducioso nella verità di entrambi i libri, Fabre sottopose le sue osservazioni a molteplici verifiche prima di cimentarsi e trarne una conclusione, guidato da quello che capì essere il dono della ragione fattoci da Dio. «Quando ero giovane » scrisse, «libri da quattro soldi ci insegnavano che l’uomo è un animale razionale; oggi, dotti volumi ci dimostrano che la ragione umana non è che un gradino più alto di una scala la cui base risiede al più basso livello dell’animalità». Con convinzione darwiniana aggiunse: «Si comincia da zero nella materia vischiosa di una cellula, e si sale fino al possente cervello di un Newton». Per Fabre, l’intelligenza – questa «nobile facoltà di cui andiamo tanto fieri» – è semplicemente «una prerogativa zoologica».
L’espressione” amante della natura”, così abusata nel discorso New Age, nel caso di Fabre è tuttavia una definizione calzante. In Natura nulla lo inorridiva, nulla lo umiliava; tutto ciò che osservava era per qualche motivo divino e rivelatore.
Come un Giobbe ( le cui sofferenze egli rileggeva di continuo) dalla mente scientifica, Fabre studiò la fragilità del bozzolo delle falene e la lunghezza del salto delle locuste che Dio aveva sgrossato dal disordine. Da bambino aveva letto di quelle meraviglie nei libri, ma presto apprese che «osservare con i propri occhi, e al tempo stesso sperimentare un po’, è molto diverso».
Gli esperimenti di Fabre originavano dalla sua smania di comprendere la straordinaria complessità delle sue conoscenze del mondo e dal desiderio profondo di cercare di scandagliare le meraviglie di Dio, che Giobbe diceva essere «impensabili e incomprensibili», e gli «innumerevoli miracoli».
Rivolgendosi ai suoi colleghi universitari, chiusi nei loro laboratori dove trascorrevano giorni e giorni a studiare carcasse e carogne, indifferenti ai cicli continui della vita e della rinascita, Fabre dichiarò: «Voi sezionate l’animale e io lo studio vivo; voi ne fate un oggetto che ispira orrore e pietà, mentre io lo faccio amare; voi lavorate in laboratori dove si tortura e si squarta, io conduco le mie indagini sotto l’azzurro del cielo e al canto delle cicale; voi sottoponete la cella e il protoplasma ai reagenti, io studio l’istinto nelle sue espressioni più alte; voi scrutate la morte, io osservo la vita».
La soddisfazione di Fabre, il suo stupore per le meraviglie della Natura, la sua determinazione a osservare e sperimentare e osservare di nuovo per arrivare a conclusioni irreprensibili e corrette sarebbero poco più di una nota a margine nella storia imponente della ricerca entomologica se non fosse per lo stile usato dallo stesso Fabre, che lo rese uno dei più grandi scrittori francesi in un secolo che poté vantare Flaubert e Chateaubriand. Nel secondo volume dei suoi Ricordi entomologici, cercò di spiegare così la sua scelta espressiva: «Altri hanno criticato il mio linguaggio, che non avrebbe la solennità o, meglio, l’aridità di quello accademico. Temono che una pagina, se si legge senza sforzo, non possa essere espressione della verità». Più avanti Fabre aggiunse: «Ora, se scrivo per gli scienziati, per i filosofi che tenteranno un giorno di gettare luce sull’arduo problema dell’istinto, scrivo anche, e soprattutto, per i giovani, ai quali vorrei tanto far amare questa storia naturale che voi invece fate odiare; ed ecco perché, pur rispettando scrupolosamente la verità, evito di adeguarmi alla vostra prosa scientifica, che troppo spesso, ahimè, sembra presa in prestito da una qualche tribù di indiani». Fabre non perse mai il suo senso della meraviglia. Morì nel 1915, all’età di 92 anni, dopo aver assistito alle atrocità, della Prima Guerra, che la cosiddetta civiltà può commettere contro il suo mondo naturale ben strutturato. Guardando al futuro, rifletté pacatamente sul mondo che noi, suoi discendenti, abitiamo e viviamo. «Proiettiamoci più in là nell’avvenire» scrisse Fabre. «Ogni cosa sembra dire che verrà un giorno in cui, di progresso in progresso, l’uomo soccomberà, annientato dagli eccessi di quella che egli chiama civiltà. Troppo indaffarato a fare Dio, non può sperare nella placida longevità degli animali», che si tratti di una falena affamata o di un virus microscopico.
(Traduzione di Anna Bissanti)