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 2020  agosto 08 Sabato calendario

Orsi & tori

Come potrebbe, Banca Intesa Sanpaolo, non essere la prima banca italiana, destinata, con Ubi, a diventare la seconda d’Europa? 1998, prima fusione: la Cariplo, prima cassa di risparmio d’Italia, si fonde con Banco Ambrosiano Veneto, che era la risultante della fusione fra il Nuovo Banco Ambrosiano e la Cattolica del Veneto. Due uomini al comando, che saranno decisivi nella storia della banca e del sistema bancario italiano: il professor Giovanni Bazoli, bresciano, cattolico, imparentato con la famiglia di Papa Montini, e l’ex presidente cattolico della Regione Lombardia, non ancora leghista, parlamentare della Dc, Giuseppe Guzzetti. Quindi un matrimonio relativamente facile, ma coraggioso, fra cattolici.
1999, seconda fusione: Banca Intesa diventa IntesaBci. Impresa non facile, la banca dei cattolici con la banca più laica, massonica, d’Italia, ma anche la banca più internazionale, Banca commerciale italiana. La Comit era sempre stata sotto il controllo di Enrico Cuccia, salvo il periodo in cui il presidente Sergio Siglienti si ribellò a quella che, dal titolo del suo libro, fu Una privatizzazione troppo privata (1994). Fu portata al matrimonio (1999, le pubblicazioni prematrimoniali in Bankitalia, fusione materiale nel 2001) con il mondo cattolico da un imprenditore arguto e molto ricco, l’industriale siderurgico, anch’egli bresciano, Luigi Lucchini. Il nome IntesaBci durò soltanto fino al 1° gennaio 2003. Già incalzava un’altra fusione anche se si compì tre anni dopo.
2006, terza fusione: ancora un matrimonio fra la cattolica-laica Banca Intesa e il laico Istituto S. Paolo, se non per il nome, per chi lo guidava, il liberale Enrico Salza, protagonista fondamentale di quell’operazione. Protagonista al punto da negoziare che la banca nata dalla fusione si chiamasse Intesa Sanpaolo, dove però i due nomi erano uniti, al centro, dal quadrato con i tre archi, che dalla prima fusione aveva sempre preceduto il nome Banca Intesa.
Il marchio nuovo fu svelato durante l’assemblea del 2000, a Praga, del Fondo monetario internazionale, che era anche l’occasione per l’incontro di tutti i banchieri commerciali. Alla cerimonia era presente anche Siglienti, che con l’acutezza che lo distingueva, vide in quei tre archi non un acquedotto come raccontava l’agiografia, ma un ponte a tre archi. In occasione della quarta fusione, con Ubi, sarà aggiunto un arco per allungare il ponte?
A parte i simboli, ho rubato ai lettori qualche minuto perché nei commenti e nel clima che si era formato durante l’opas su Ubi lanciata dal ceo di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, e coordinata dal secondo banchiere della casa, Gaetano Miccichè, sembrava quasi che Intesa Sanpaolo fosse nata dal nulla e non da varie fusioni. Tutte perfettamente riuscite per l’intelligenza e capacità di uomini come Bazoli, Guzzetti, Salza dal lato ideologico e come Carlo Salvatori, Corrado Passera, Messina, Miccichè e molti altri grandi manager capaci e seri. Come è stato, per alcuni anni, quale direttore marketing, anche Victor Massiah, il più duro, coriaceo, quasi arrabbiato a non voler cedere all’idea di vedere inglobata dalla sua ex banca anche Ubi, di cui era diventato nel frattempo consigliere delegato. Si è riscattato con la dignità di lasciare la carica immediatamente dopo l’esito dell’opas e con una bella lettera di saluto ai dipendenti e agli azionisti, tutti, quindi anche a quelli che erano rimasti sulle barricate.
Brescia, Bergamo e il Nordest, a parte la fusione a Nordovest, hanno avuto un ruolo decisivo nella realizzazione della prima banca italiana come è e come sarà ancor più con l’incorporazione di Ubi. Bresciano Bazoli, bresciano Lucchini, fondamenta bresciane e bergamasche nella nascita di Ubi, prima come popolare per intuito di Bazoli in modo da non mettere in secondo piano la Popolare di Bergamo nella fusione con le banche bresciane, e poi spa, allargata a Genova e alla provincia Granda di Cuneo.
Ma il Nordest Veneto, connesso a Milano, è fortemente presente sia storicamente, con l’anima e i clienti della Cattolica del Veneto controllata dal Banco Ambrosiano, sia recentemente con l’incorporazione in Intesa Sanpaolo delle due venete andate in default, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca, in pratica con l’acquisizione come clienti di tutte le industrie e attività produttive della fiorente (ora meno) area più industrializzata d’Italia.
Del resto in Usa e in Inghilterra il fenomeno delle integrazioni e fusioni è ordinario. Non c’è grandissima banca americana che non sia frutto di integrazione: si pensi alla Chase dei Rockefeller, integrata con JP Morgan, oppure a Bank of America, che ha incorporato Merrill Lynch. Insomma, non ci può essere grandissima banca senza che si siano aggregate e fuse più banche. È il mercato che lo esige, sono i regolatori a volerlo, è la modernità tecnologica che richiede grandi banche di riferimento non solo per cittadini e aziende, ma per i Paesi.
Tutto ciò, però, non fa che rendere sempre più necessarie nuove banche specializzate e banche del territorio. Avere grandi banche non può voler dire azzerare il valore delle banche che fin dai vertici conoscono alla perfezione i correntisti e le aziende del territorio, di cui sanno vita morte e miracoli. Non sottolineare questi valori da parte delle autorità di controllo europee e nazionali è stato ed è un grave errore. Come è un errore gravissimo cercare di negare che le banche popolari possano crescere molto conservando intatti il valore della cooperazione. La dimostrazione più evidente che si può crescere molto e conservare lo spirito cooperativo delle popolari è la Banca popolare di Sondrio, che fra le banche quotate è stata la prima molti anni fa a introdurre la lettera agli azionisti, e ogni anno ha offerto i risultati di bilancio in gennaio, prima di qualsiasi altra banca, grande o piccola. Volere costringerla a trasformarsi in spa, non più cooperativa popolare, è uno sfregio gravissimo al valore della cooperazione anche nel settore bancario. Non è vero che cooperazione nel settore bancario è bello solo perché è piccolo. C’è quindi da augurarsi che alla fine Bankitalia e il meccanismo unificato di vigilanza della Bce sappiano accogliere le istanze della Banca popolare di Sondrio, facendola diventare l’esempio positivo per tutte le popolari.

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Da una bella notizia a una pessima notizia.
Siamo al paradosso, al drammatico paradosso della democrazia liberale americana e di conseguenza del mondo occidentale. E quanto è accaduto ripropone la necessità di introdurre regole nuove e stringenti sulla comunicazione dei social e in particolare di quelli che diffondono informazioni e giudizi. Il paradosso è che in un primo approccio quasi tutte le persone responsabili e attente all’involuzione innescata dai social, hanno invocato la necessità che Facebook, Twitter e più piccoli fratelli impedissero la diffusione di notizie false e pericolose. Per difendere i loro fatturati miliardari i social hanno fatto ammuina, come direbbero a Napoli. Tanto è vero che, in ogni caso, il 10 giugno sulla rete le fake news, in continua crescita, hanno sorpassato le notizie vere. Ma il paradosso era dietro l’angolo: i social da diffusori sono arrivati a essere anche censori. E quando si innesca la censura, si sa da dove si parte e non dove si arriva. La dimostrazione è che Twitter e Facebook sono arrivati, l’ultimo caso giovedì 6, a censurare il presidente degli Stati Uniti.
Che Donald Trump dica cose assurde, paradossali e spesso prive di qualsiasi realtà è certo. Ma che i social gli impediscano di far conoscere agli elettori il suo limite umano e politico, pericoloso per il mondo, è inaccettabile. Nel bene e nel male. Twitter e Facebook hanno censurato a Trump questa frase: «I ragazzi sono quasi immuni». Certamente pericolosa fake news, ma i cittadini non solo americani hanno diritto a sapere se colui che tenta di essere rieletto a capo delle Paese leader del mondo occidentale è definitivamente fuori di melone, per usare un’espressione in voga sui social. Come si può accettare che venga censurato il presidente degli Usa, democraticamente eletto? Così facendo, fra notizie più fake che vere sulla rete, fra ammuine per contenere la loro diffusione smentite dal sorpasso, una riflessione profonda è indispensabile. Il caso dimostra il paradosso: da una parte si invocano giustamente regole per limitare i danni delle fake news, dall’altra loro limitano la libertà di opinione, facendo doppio danno alla democrazia, con la censura del capo del Paese ancora più potente al mondo. Il Congresso si è appena mosso; l’Unione europea per fortuna è un po’ più avanti, con il suo più alto livello di civiltà. Ma da sola non può farcela. Non c’è che sperare in un profondo cambiamento di rotta con un nuovo presidente degli Stati Uniti che tagli le unghie ai social, in primo luogo per il loro devastante potere economico e quindi politico, e dall’altra contribuisca a fissare regole che impediscano le fake news, senza che gli Ott diventino anche i padroni della censura del potere politico democraticamente eletto. Gli elettori hanno il diritto di conoscere tutto di chi li governa. E in primo luogo le cose peggiori che compiono.
Insomma, oltre che in un contesto paradossale, si è a un bivio, di cui la censura al più dannoso dei presidenti degli Stati Uniti può essere il segnale da prendere al volo per stabilire nuove regole. Perché completamente nuova, nell’era del digitale, è già il concetto di diritti dei cittadini, della loro privacy, del loro diritto all’educazione, e quindi della democrazia come l’abbiamo conosciuta e vissuta finora.