La Stampa, 8 agosto 2020
Intervista ad Abel Ferrara
Puntuale, lucido, preciso. E anche molto attento nell’applicare le norme anti-Covid. Dalla Berlinale, dove ha presentato Siberia (nelle sale dal 20 agosto) alla prossima Mostra di Venezia dove proporrà Sportin’ Life, Abel Ferrara, in questi giorni ospite d’onore del «Magna Graecia Film Festival» dove ha ricevuto la Colonna d’oro alla carriera, intreccia un impegno dopo l’altro con un entusiasmo che il tempo ha reso ancora più radicale: «Per me essere regista significa aver ricevuto un dono, qualcosa che dà significato alla mia vita, e a cui devo prestare la massima attenzione, cercando di dare il meglio». I tempi complicati delle dipendenze sono lontani, adesso Ferrara guarda al futuro, con la voglia di goderselo tutto.
Qual è stato l’incontro più importante nella sua vita professionale?
«Il prossimo. Quello che deve ancora avvenire. Credo sia giusto vivere il momento. Specialmente adesso, che ho 69 anni e in girò c’è un virus che può uccidere, ho la sensazione che ogni giorno guadagnato sia sacro».
In Siberia il protagonista Willem Dafoe decide di vivere confinato in un luogo sperduto tra le nevi, abbandonandosi a una specie di bilancio esistenziale. Lo spunto è autobiografico?
«Ogni film è personale, l’immaginazione contiene sempre qualcosa di se stessi. Siberia è il racconto di un viaggio a ritroso nel passato, un passato lungo e pieno di errori. Non so nemmeno bene da dove viene il titolo, forse dal fatto che il nome Siberia comunica un senso di isolamento intellettuale, ma anche qualcosa di mistico, di magico».
Lavora spesso con Dafoe, che cosa le piace di lui?
«Abbiamo girato sei film insieme, è intelligente, sensibile, aperto, pronto a mettersi alla prova, è uno che sa dare tutto se stesso».
Ha origini italiane, è cresciuto in America e poi ha scelto di vivere a Roma. Come è andata?
«Le mie radici sono nel Sud d’Italia, la mia famiglia viene dalla zona di Salerno e da Napoli e io ho vissuto con quel tipo di cultura anche se sono cresciuto nel Bronx. Poi sono venuto a Roma che è una città molto diversa dal resto d’Italia, un po’ come New York è totalmente differente dal resto degli Usa. Per me Roma è la città del cinema, quello delle mie passioni, di Antonioni, Pasolini, Bertolucci, Totò, Carlo Di Palma. È la città in cui essere registi significa un certo tipo di cose, è molto diverso dall’America».
In che senso?
«Negli Usa essere registi non significa assolutamente niente, devi combattere per fare questo lavoro, perché venga rispettato e considerato in quanto espressione artistica».
In questo periodo il cinema americano è bloccato. Pensa che si riprenderà?
«Il cinema deve essere radicalmente re-inventato. Bisogna fermarsi e immaginare un modo nuovo per girare film».
La pandemia ha acuito certe problematiche. Come vede la contrapposizione tra visione in streaming e in sala?
«Non ho pregiudizi in materia, l’importante è che la gente veda i film, se lo fa usando il telefono, la tv, lo schermo, le sale, non mi interessa. Non ci vedo niente di diverso. Vanno bene anche i drive in, che sono posti molto romantici. Da ragazzino ne avevo uno vicino casa, ci andavo spesso insieme alla mia famiglia, e poi con gli amici, cercando di far sedere sul sedile posteriore la ragazza che mi piaceva. Ho un sacco di ricordi di quelle serate».
Pensa che il Covid segnerà un prima e un dopo?
«Sì, tutto sarà assolutamente diverso da prima, la pandemia non è un evento da cui si torna indietro, sarà un po’ come con la Seconda guerra mondiale, dopo tutto è cambiato».
Nonostante il lockdown ha realizzato un altro film, Sportin’ Life, selezionato alla Mostra di Venezia. Come ha lavorato?
«Per la prima volta ho realizzato un film da remoto, da solo in una stanza. Ero a Roma con la mia compagna Cristina e con mia figlia Anna, ho collaborato con persone che erano a Brooklyn e con altre che stavano dall’altra parte della città. Ci siamo fermati e ci siamo chiesti come fare per andare avanti. Spostarmi era impressionante, non c’era nessuno per strada, tutto era chiuso, e infatti sto preparando un altro documentario proprio su quel periodo. Si chiamerà Zero e gli altri, sarà una metafora sul lockdown, come se a Roma ci fosse stata una guerra. Lavorerò con Elio Germano, che reciterà in inglese».
Di cosa parla Sportin’ Life?
«Come stile e struttura somiglierà un po’ a Alive in France. Abbiamo girato a Berlino per raccontare che cosa significa partecipare a un grande festival internazionale, poi ci sono parti musicali in cui la mia band si esibisce, e infine raccontiamo l’esplosione del virus. È un po’ come un diario personale, cose che ho visto, cose che ho immaginato».
In America la situazione Covid è molto grave. Che pensieri le suscita?
«In Usa ognuno è il presidente di se stesso. Il Paese ha 300 anni, Roma, invece, ne ha alle spalle tremila. Qui tutti hanno capito che cosa bisognava fare, a nessuno piace indossare la mascherina ma si fa lo stesso, perché è così che ci si salva. In America chiunque fa quello che gli pare, ma credere nella libertà non significa questo. È la follia del mio Paese. Trump non mette la mascherina perché non gliene importa nulla della gente che muore, pensa solo agli effetti sull’industria e sul mercato. Alla fine tutti fanno la cosa sbagliata e così tutti si ammalano».