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 2020  agosto 08 Sabato calendario

Intervista allo stilista Virgil Abloh


Dee-jay, designer autodidatta, architetto, art director (per Kanye West), imprenditore: Virgil Abloh, afroamericano, 39 anni, residente a Chicago dove vive con la moglie e i due figli, è il prototipo del creativo contemporaneo multitasking. In più lui grazie a Off-White, brand fondato nel 2013 e oggi in cima alla classifica dei marchi più amati, e al menswear di Louis Vuitton che segue dal 2018, ha dimostrato di saper parlare ai più giovani come nessun altro oggi fa: prova ne sono i sold-out immediati delle sue creazioni in bilico tra sport, strada e lusso, ambitissime dai collezionisti. Abloh è unico nel suo genere, e la sua ultima "rivoluzione" s’è vista due giorni fa, in streaming, da Shanghai: lì, dopo aver viaggiato per due settimane via mare partendo da Parigi, è stata presentata la collezione uomo di Louis Vuitton per la primavera/estate 2021. La sfilata, aperta a tutti, nei prossimi giorni toccherà diverse capitali asiatiche, fino al gran finale a Tokyo il 2 settembre. L’iniziativa segna pure l’abbandono del brand delle sfilate parigine; il che, per un marchio simbolo della Francia come Vuitton, non è da poco.
Emergenza Covid-19 a parte, perché ha deciso di lasciare Parigi e il calendario ufficiale?
«Naturalmente pesano i limiti di questa nuova realtà: per andare avanti oggi si deve pensare in maniera differente. Per esempio, chi dice che una sfilata debba avere solo pezzi nuovi? Tutte le mie collezioni hanno valore, quindi in questa ho unito elementi del passato, capi riciclati – nei materiali e nelle idee – e proposte inedite. E poi, perché si sfila solo a Parigi? Ci sono così tante città e persone da incontrare, è riduttivo ragionare così».
A causa delle restrizioni sui viaggi non ha potuto essere a Shanghai. Le è spiaciuto molto non esserci?
«Il mondo non è più quello a cui eravamo abituati, tocca farsene una ragione. Almeno la tecnologia ci permette di essere virtualmente ovunque, perciò non sento d’essermi perso qualcosa. Per ora può bastare».
Il suo Vuitton è sempre molto allegro. Come mai?
«Io non rappresento il mondo com’è, ma come lo vorrei. Inoltre, voglio dimostrare quanto possa essere moderno un marchio tanto imponente: è rischioso, ma se non ci si sporca le mani questo mestiere non ha senso».
Lei è l’unico designer afroamericano a ricoprire un ruolo tanto importante. Quanto pesa questa consapevolezza nel suo lavoro?
«È una parte enorme della mia esistenza, ovvio, ma io non voglio solo rappresentare una minoranza, voglio che le cose cambino. Per questo ho creato il Post-Modern Scholarship Fund , un fondo di un milione di dollari per i ragazzi neri che studiano moda. Questo settore continua a ignorare una fascia di pubblico: voglio essere sicuro che le porte che sto aprendo restino aperte anche per loro, e che si sentano in grado di prendere il mio posto quando smetterò».
Che tipo di consigli gli dà?
«Quelli di cui avrei avuto bisogno io alla loro età: consigli pratici per sfruttare le loro potenzialità e capire di cosa sono capaci. So quanto sia importante avere un punto di riferimento, per me è stato Giorgio Armani: grazie a lui ho capito come si costruisce un marchio e lo si rende solido».
Quindi, quando si è reso conto delle sue capacità?
«Quando ho smesso di cercare l’approvazione altrui. Volevo che qualcuno mi dicesse che ero un designer e che le mie idee erano buone, ma come giovane maschio nero non avevo molto spazio; al massimo potevo sperare di diventare l’assistente di un direttore creativo.
Nel momento però in cui ho smesso di aderire allo status quo e ho fatto a modo mio, ho capito che ce la potevo fare».
Lei è una star, con migliaia di fan assiepati fuori dai suoi show nella speranza di entrare o anche solo di avere un suo autografo. Perché accade, secondo lei?
«La moda è un sistema chiuso, elitario. Io ho aperto il circuito facendo entrare tutti con me: quando pubblico l’indirizzo delle mie sfilate sui social (è l’unico a farlo, ndr) non è per pubblicità, ma perché il mio progetto ha bisogno delle persone, che sia una sfilata a Parigi o una lectio magistralis ad Harvard».
Sono in pochi a pensarla così.
«Lo so. Io all’inizio sono stato messo sotto processo; mi è stato detto che avrei fallito, che non appartenevo a questo mondo. Per questo, quando è arrivato il mio momento, ho voluto coinvolgere tutti, rendendo la mia storia la storia di tutti».
Ha fatto molto discutere la sua affermazione che lo streetwear, il genere di maggior successo degli ultimi anni, è morto. E ora cosa accadrà?
«È ovvio che lo streetwear vada a esaurirsi: tutto ciò che rappresenta il presente si evolve e finisce, altrimenti non sarebbe lo specchio della realtà. La moda in questo non fa differenza, ma il futuro non lo deve chiedere a me. Vada in Porta Venezia a Milano (il quartier generale di Off-White è nella capitale lombarda, ndr ), e chieda ai quattordicenni che sono lì cosa gli piace: il futuro della moda è in mano loro, e credo sia bellissimo».