la Repubblica, 8 agosto 2020
Quarant’anni di lotte per l’aborto
Non è soltanto un farmaco la pillola Ru486. Non è soltanto una modalità diversa per applicare la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. È, quella pillola, l’ultima battaglia vinta dalle donne nella difesa del proprio corpo. L’ultimo capitolo di una storia umana e politica lunga quasi mezzo secolo, per avere il diritto di parola sulla scelta, a volte amara, di dire di no a un figlio. Il nuovo tassello di una legge, approvata nel 1978, confermata da un referendum nel 1981, ma continuamente erosa, avversata, depotenziata, resa quasi inapplicabile.
Era il 1961 quando con una inchiesta che finalmente spezzava il silenzio, “Noi donne”, la rivista dell’Udi, l’Unione donne italiane, raccontava che in Italia su 100 gravidanze almeno 50 venivano interrotte clandestinamente, mentre gli aborti si stimava che fossero oltre un milione l’anno. Un’inchiesta coraggiosa e scioccante. Finalmente quel dramma sociale usciva dalla sfera privata, diventava pubblico, politico.
Così Carlo Flamigni, famoso ginecologo da poco scomparso, ricordava gli anni della clandestinità: «Le donne si presentavano dopo la mezzanotte, uscivano con il buio, quando nessuno poteva vederle: arrivavano in ospedale con ferite gravissime, lacerazioni, emorragie, infezioni, accadeva ogni sera, ormai eravamo preparati: quelle donne, a volte ragazzine, erano reduci da aborti clandestini avvenuti chissà dove e con chissà quali mezzi, facevamo il possibile per aiutarle, alcune si salvavano ma altre morivano, e molte restavano lesionate per sempre».
Erano gli anni 70 e interrompere una gravidanza poteva costare cinque anni di reclusione e la contraccezione era fuorilegge. Ma dovranno passare 12 anni dall’inchiesta dell’Udi, mentre il movimento delle donne si compatta attorno al grido «Aborto libero per non morire», perché in Parlamento nel 1973, si inizi a parlare di «depenalizzazione dell’aborto», con la proposta di Loris Fortuna, socialista, “padre” della legge sul divorzio appena approvata. Tra quel milione di aborti e i neanche 80mila del 2018 certificati dal ministero della Salute nell’ultima relazione al Parlamento c’è un pezzo di storia d’Italia che attraversa la prima, la seconda e la terza Repubblica. Ma il dato centrale non cambia: per difendere l’aborto legale le donne devono continuare a scendere in piazza. E vigilare. E combattere, alzare barricate attorno alla legge, perché oggi l’attacco non è più frontale, ma laterale, scavato dall’interno, è l’obiezione di coscienza massificata (il 70% di ginecologi e anestesisti) che impedisce in intere regioni d’Italia l’accesso all’aborto. È il tentativo di imporre disegni di legge che diano statuto giuridico all’embrione facendolo diventare «persona» (l’ultimo del 2019 è firmato da Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello). Status per il quale l’aborto diventerebbe di fatto, omicidio. Passando per estremismi come «l’adozione in pancia del feto» proposta dal leghista Stefani, chiedere alle donne di far nascere bambi già destinati ad altri.
Spie di una parte del Paese che sembra evocare gli arresti c lamorosi del 1975 di Adele Faccio ed Emma Bonino che avevano fondato a Milano il Cisa, Centro di informazione sterilizzazione e aborto, che forniva, di fatto, un supporto alle donne che potevano abortire in sicurezza (importarono in Italia il metodo Karman), pur violando la legge. Migliaia di madri e figlie affollavano i cortei femministi con grandi cartelli: «Anch’io ho abortito, processatemi». Dietro si portavano storie atroci che si ripetevano in una quotidianità agghiacciante fatta di tavoli da cucina, ferri da calza, asciugamani sulla bocca per non urlare, e dove a un figlio seguiva un aborto, a un aborto una nuova gravidanza e così via.
Sono i Radicali, soprattutto, a portare avanti la battaglia per un referendum abrogativo del reato di aborto. È ai Radicali che si deve la battaglia culturale che cambia il Paese. Invece la legge nasce in Parlamento, nonostante la feroce opposizione della Chiesa e della Dc. Figlia di una tessitura di compromessi, firmata da tutti i partiti della sinistra, Pci, Psi, Psdi, Dp, ma anche dai Repubblicani e dai Liberali. Ma anche nella sinistra sono le donne a dover rompere le resistenze dei “compagni” sul tema dell’aborto, nel Pci, tra le altre, le voci di Nile Iotti e Marisa Rodano. E sarà poi Enrico Berlinguer, in uno storico discorso del 1981 a Firenze, a schierarsi per il No all’abrogazione della legge sull’aborto, traghettando così il Pci nell’area laica dei diritti civili. È la storia d’Italia sul corpo delle donne. C’è tutto questo dietro il via libera all’aborto farmacologico in day hospital. La necessità di difendere, ancora e ancora, la legge 194.