Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 07 Venerdì calendario

Intervista a Jonathan Bazzi

Hiv, omosessualità, periferia, alienazione, violenza: di tutto questo, e di altre cose di cui si dovrebbe tacere, parla Jonathan Bazzi, in Febbre. Il suo romanzo, pubblicato da Fandango nel maggio 2019, ha vinto il Libro dell’anno di Fahrenheit Radio 3, il premio Opera Prima ed è arrivato tra i sei finalisti dello Strega. «La scrittura è il mio elemento, come l’acqua per i pesci», racconta in videochat sulla pagina Facebook de La Stampa. «Se non scrivo niente in una giornata sento di non esserci stato, di non aver vissuto davvero. È un giorno sprecato».
Come è nato "Febbre"?
«Volevo raccontare il posto in cui sono cresciuto, Rozzano, all’estrema periferia sud di Milano. L’idea risale al 2012-2013, però è rimasta in stand-by per diverso tempo, manifestandosi solo con qualche articolo pubblicato sulle testate per le quali collaboravo o sui social. Poi, nel 2016, con la febbre che dà il titolo al libro, ho scoperto di essere sieropositivo, e da questo tratto della mia identità è nato un dialogo con Rozzano, con la mia infanzia e l’adolescenza e con le figure che l’hanno popolata. Da qui la struttura del libro, a capitoli alternati, dove si ricostruiscono progressivamente questi due archi temporali».
Il libro ha un ritmo e una musicalità evidente. Quanto conta la musica nella tua scrittura?
«Leggo spesso le cose che scrivo ad alta voce, ho un forte legame con la parola orale, che è poi la dimensione originaria della letteratura. Sognavo di fare il cantautore, e tuttora canto tantissimo. Sono cresciuto con Carmen Consoli, Cristina Donà, PJ Harvey, Björk, Alanis Morissette, più di recente Maria Antonietta o Margherita Vicario. Ho cominciato a interessarmi al rap e alla trap, sono un grande fan di Tha Supreme, Ghali e Sfera Ebbasta. E poi Mahmood, che sento vicino per le sue origini nella mia stessa periferia. Achille Lauro mi emoziona, soprattutto per le cose che dice a proposito delle questioni di genere, trovo che sia una grande, bellissima novità».
Achille Lauro gioca molto con l’identità di genere. Essere maschi o femmina o gay quanto definisce una persona? E quanto l’essere sieropositivo?
«Se c’è qualcosa che mi definisce è il mio sguardo. Credo sia anche per questo che riesco a mettere sulla pagina temi scomodi, compromettenti, imbarazzanti: io non mi ci identifico. Non sono la mia omosessualità, la mia sieropositività, la mia balbuzie, ma sono quel centro di osservazione non qualificato, neutro, trasparente, che vede queste cose da una certa distanza».
Si parla molto di questione di genere nella lingua italiana, tu come la affronti?
«Credo che bisognerebbe essere tutti in ascolto delle esigenze degli altri e tenerne conto: esiste una struttura culturale che utilizza sempre il maschile per il plurale o per titoli professionali e mestieri, e che andrebbe rivista. Io non mi sento né maschio né femmina, non ho un legame univoco con questi due poli: quando mi si definisce uomo o maschio c’è qualcosa nella mia mente che fa attrito, e qui gioca anche la differenza tra identità di genere e orientamento sessuale. Esistono gay super machisti, e a volte misogini».
Allo stesso modo classificare "Febbre" tra la letteratura lgbt significa ridurlo in una nicchia e diminuirne la valenza politica.
«Sono felice quando si nota il carattere ibrido di questo libro, che ha un’aspirazione narrativa, estetica, ma che cerca di intervenire dal punto di vista etico, dunque politico, su un immaginario condiviso. È la sfida della letteratura in questo nostro tempo: indagare e scandagliare il cuore dell’essere umano, anche a dispetto di tutte le remore e le strutture tradizionali».
"Febbre" si apre con una dedica ai bambini invisibili. Chi sono i bambini invisibili?
«Sono quelli che non vengono visti dagli adulti che dovrebbero farlo, o quelli costretti a essere testimoni involontari di situazioni che non sono a misura di bambino. Questo è un altro tema del libro, la violenza che non viene esercitata direttamente sui minori ma alla quale assistono: crea un senso di impotenza che può lasciare ferite pari a quelle di violenze vissute in prima persona».
In "Febbre" la malattia diventa pretesto narrativo. Secondo te ci saranno romanzi, film o dischi ispirati al coronavirus?
«Personalmente non mi ha acceso nessuna scintilla dal punto di vista letterario, pur avendo avuto anche io il Covid. Non ho fatto test e tamponi, ma i sintomi c’erano tutti: cinque mesi fa ho avuto di nuovo una febbre ostinata, e ho perso il gusto e l’olfatto. Certo, niente di paragonabile a chi è stato malato in forme più severe o ha perso persone care. Vedo che già abbondando i lavori ispirati al coronavirus, ma credo che debba esserci un margine temporale tra l’esperienza vissuta e l’elaborazione narrativa».
Sei nato nel 1985: ti senti parte di una generazione di giovani narratori?
«Mi piace l’idea di far parte di una nuova generazione di autori, però credo che non sia sufficiente l’età anagrafica a definirla, perché vedo, soprattutto in ambito letterario, giovani che subiscono il fascino di posizioni sclerotizzate. Conta l’aspetto anagrafico, ma credo conti soprattutto una sintonia di temperamento: essere interpretato come un prodotto di questo tempo per me è una medaglia, significa assumerne su di me pregi, difetti, contraddizioni. Non implica che tutto ciò che è contemporaneo è buono, anzi ci sono aspetti tragici, di dispersione».
Febbre è raccontato in prima persona, ma dove finisce Jonathan Bazzi e dove inizia il protagonista?
«Si dà per scontato che tutto ciò che c’è in Febbre sia reale, ma non ho mai specificato puntualmente cosa è vero e cosa no. C’è spazio per immaginazioni e fantasticherie infantili, e sono sicuro che alcuni personaggi del libro hanno vissuto diversamente le cose che racconto».