il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2020
Umberto Pizzi ricorda Liz Taylor
Liz Taylor per anni è stata la numero uno, era un assoluto: quando chiamavo il proprietario di National Enquirer per segnalargli la sua presenza, la risposta era sempre la stessa: “Umberto vai, con la Taylor il budget è illimitato”.
E io partivo.
Londra, Parigi, Stati Uniti per me era uguale: gli scatti con lei protagonista, in particolare in coppia con Richard Burton, giravano ovunque, anche su dieci testate contemporaneamente.
Non sempre era felice di vedermi, mi aveva soprannominato Rubber face, “Faccia di gomma”, perché secondo lei mi trasformavo da persona cortese e amabile a spietato cacciatore di immagini. Un killer. Non aveva tutti i torti. Ma lei era una fonte inesauribile, una diva secondo tutti gli stereotipi possibili. Bella, capricciosa, volubile, controversa. Quando arrivava a Roma, affittava l’intero piano del Grand Hotel: dentro quelle stanze accadeva l’impossibile, da festini, a urla equivoche, tanto da diventare un mito per i portieri di notte, che mi raccontavano le sue bravate, anche sessuali.
Però il nostro rapporto era particolare. Una sera la vedo dentro un ristorante, mi apposto, e all’improvviso pianta una grana perché non trovava più il suo orecchino di brillanti. Lo cerco e lo trovo: come premio la stessa Taylor mi ha invitato a ballare un lento al centro della sala.
Sempre a Roma, era molto amica di Lino Cavicchia, storico ristoratore; un giorno Lino mi chiama: “Vai a Montecarlo da Liz?”. “Sì”. “Le puoi portare una cosa?”.
Era un prosciutto intero, la fissazione della Taylor: tutto il viaggio con la mia Fiat 500 invasa dal profumo di quei dieci chili di prelibatezza.
Arrivo all’Hotel de Paris, entro con in braccio il dono, e il personale mi guarda con un misto di disprezzo e sconcerto. “È per la signora Taylor”. La chiamano in stanza, capiscono che non sono un mitomane, mutano atteggiamento, io lascio il regalo sul bancone e con il sorriso me ne vado.