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 2020  agosto 06 Giovedì calendario

Una vecchia intervista a Domenico Modugno

Quando entrai nella sua stanza all’Hotel Royal di Sanremo, nel febbraio del 1989, mi colpì lo sguardo terribile e amaro del vecchio eroe ferito, lui che era stato un guerriero senza macchia e senza paura, un moschettiere spavaldo, un concentrato di energia vitale, una personalità talmente prorompente da averlo spinto a essere tante cose diverse: attore, rumorista, autore, cantante, comico, politico, ma soprattutto un puro e finissimo genio della canzone che il mondo intero aveva imparato a conoscere proprio a partire dal festival. «In questi giorni mi sto appunto chiedendo se sono più io che devo qualcosa al Festival, o il Festival che deve qualcosa a me» mi disse Domenico Modugno con aria sconsolata. Quell’anno era ospite nella cittadina dei fiori perché avevano deciso di utilizzare come sigla la sua Piove a trent’anni dalla vittoria al Festival. «Purtroppo come un monumento, direi, e questo mi fa meno piacere». Fu un’edizione passata alla storia per quella che è stata definita la peggior conduzione del festival con i quattro “figli di…” Rosita Celentano, Danny Quinn, Gianmarco Tognazzi e Paola Dominguin che pensò bene di presentare Piove come una canzone di “Renato” Modugno.
Il grande, immenso Mimmo era provato, camminava a fatica, segnato dall’ictus che l’aveva quasi ucciso mentre lavorava al programma di Canale 5 La luna nel pozzo, nel giugno del 1984, ma parlava ancora come un uomo indomabile, battagliero, lucidissimo. «Devo ammettere che Sanremo mi rende nervoso, sento un po’ di ansia, come se dovessi partecipare anche io».

Com’ è cominciata per lei la vicenda del Festival di Sanremo?
«Innanzitutto devo dire che sono molto grato in particolare all’avvocato Caiafa che è stato uno dei primi organizzatori della manifestazione. Gli devo moltissimo perché è stato l’unico a darmi la possibilità di cantare a Sanremo. Perché anche se oggi forse sembra assurdo, all’epoca come cantante non mi volevano proprio. Oltretutto si cantava in coppia, e non sapevano con chi accoppiarmi. A quell’epoca era ancora il Festival della canzone italiana. Volare era stata scelta dai selezionatori e quindi non potevano rimandarla indietro. Qualcuno doveva pur farla, e allora Caiafa disse: se l’abbiamo scelta perché è bella cantata da Modugno, tanto vale che la canti lui».
A pensarci oggi sembra una follia. Ma davvero c’è stato il rischio che "Volare" non la cantasse lei?
«Certo, quelle erano le regole. Però, grazie a Caiafa, la fecero cantare a me, in coppia con Johnny Dorelli: fui io a suggerirlo avendolo conosciuto in America nel 1954. Mi ricordai di lui, e dissi: guardate che ho conosciuto un ragazzo in America e penso che sia l’unico che può farla. La canzone è nuova, io sono nuovo, tanto vale farla cantare a lui. In coppia con Claudio Villa o Nilla Pizzi non mi vedevo proprio. Volare non era una canzone per loro. A me piaceva Johnny perché cantava swing, e Volare si prestava, come hanno dimostrato qualche anno dopo Louis Armstrong e Ella Fitzgerald».
Eppure lei era già conosciuto prima del ‘58 e dell’exploit a Sanremo. Aveva già inciso canzoni come "Vecchio frac", capolavoro assoluto e caso esemplare di canzone che riusciva a coniugare un crudo, tristissimo caso di cronaca, ovvero il suicidio del principe Raimondo Lanza di Trabia, e la visione notturna di una città magistrale e indolente che respira come una quinta teatrale. Aveva inciso "Lu pisci spada" e "Resta cu ‘mme". Com’è possibile che ancora dubitassero di lei come cantante?
«Eppure era così, il Festival era ancora soprattutto un luogo di interpreti tradizionali. Sì, avevo fatto già molte canzoni, Resta cu me, Lazzarella, Io mammeta e tu, Strada ‘nfosa. Avevo cominciato nel ’53. Tutte prima di Volare , eppure ancora non mi consideravano all’altezza di cantare a Sanremo. Adesso si sentono dei big... Ma che big sono? Tra emergenti e nascenti, ci sono emergenti di cinquant’anni che non sono riusciti a fare niente e adesso sono lì a fare le nuove proposte».
È legato a qualche aneddoto dei vecchi Festival?
«Sì, il mio editore, Gramitto Ricci, all’epoca disse: se vinci con Volare mi spoglio nudo e cammino per tutto l’albergo. In effetti lo fece. E lo fece tutte le volte che ho vinto al Festival. Si spogliò per Volare e camminò nudo per tutto l’albergo. Poi l’ha rifatto per Piove , poi per Addio addio , e infine per Dio come ti amo nel 1966. Allora fece anche il bagno in piscina. È un uomo molto divertente, molto vitale. Era il mio editore e lo è ancora adesso».
Come vede dall’alto della sua esperienza quello che sta succedendo oggi?
«Credo che si debbano rinnovare, altrimenti muoiono, perché stanno tutti sulla stessa linea. Sono tutti conformisti. E non c’è più neanche la canzone italiana. Io non so chi sia a volerne la fine, e perché, ma c’è un’invasione di musica anglosassone. I talenti ci sono, ma la canzone italiana non decolla, almeno non viene esportata. Perché?».
Lei cosa farebbe?
«Di sicuro metterei un limite, come esiste nella Cee all’importazione di generi alimentari. Ci dovrebbe essere anche per la musica. C’è un’invasione di mercato. Ho saputo anche delle cose orribili. C’erano alcuni milioni di long playing invenduti in America. Li hanno comprati gli italiani e rivenduti qui con grande pubblicità. Ma questa è colonizzazione piena. È una vergogna. Sapessi chi è di preciso, lo denuncerei, lo metterei alla berlina, dicendo a tutti: questo signore uccide la cultura italiana. Per me tutta la musica è cultura, anche la canzonaccia, anche le canzoni degli alpini. Se vengono uccise, si uccide la cultura».
E secondo lei anche il Festival difende la cultura musicale italiana?
«Non lo dico perché sono vecchio, e per gli anziani è buono solo quello che c’era prima. Non è vero, è buono anche il nuovo. Però in questo caso era meglio prima. Quando c’era una signora giuria vera, composta di musicisti, di poeti, di esperti che sceglievano la canzone non i cantanti. Oggi sulla carta le posso già dire chi vince, anche senza avere ascoltato la canzone. E del resto lo sanno tutti. Vinceranno Leali-Oxa (ed effettivamente quell’anno vinsero Fausto Leali e Anna Oxa, ndr). Come già si sapeva per Ranieri o per Morandi-Tozzi-Ruggeri».
Modugno, mi tolga una curiosità da appassionato della canzone italiana. Come mai lei l’innovatore, l’anticonformista, ha potuto incidere una canzone come "Piange il telefono"?
«Fu una scommessa, perché tutti gli editori e i discografici italiani avevano rifiutato questa canzone, e parlavano tutti di crisi, dicevano che i dischi non si vendevano. Quella era una canzone che aveva avuto successo in Francia. Quando l’ho sentita, mi sono detto: hanno rifiutato un milione e mezzo di copie. Si sono messi a ridere tutti. E allora l’ho tradotta, e l’ho cantata per scommessa, per dimostrare che si potevano ancora vendere milioni di copie di un disco. Ed effettivamente così accadde. Fu un successo in molti paesi del mondo».
Certo, ma per il livello della sua produzione è stato decisamente un punto basso…
«Qui c’è di mezzo la vanità di scopritore di qualche cosa. Come canzone è un po’ retorica, mielosa, piena di melassa, però è sempre un fatto di vita. E se il pubblico gli ha decretato un tale successo, vuol dire che qualcosa c’era».
Tornerà a cantare?
«Sì, vado a fare uno spettacolo ad Agrigento per i malati di mente, il 3 di marzo, per dimostrare che questa gente può uscire da sola e andare a teatro, per tirarli fuori dal manicomio, perché la 180 non è stata mai applicata veramente. Sono abbandonati a se stessi in questi lager. Quando andai lì per la prima volta c’era un ragazzo che ascoltava in continuazione la mia canzone, Meraviglioso, e io gli ho detto: verrò qui e te la canterò personalmente, ma non nel manicomio, in teatro, in maniera che tu possa uscire con tutti gli altri, perché sei in grado di farlo. E questa cosa avrà un seguito».
Pensa di tornare in attività vera e propria?
«Non lo so. Per ora incomincio, poi si vedrà. Se reggo bene, penso di continuare, anche perché questo mi dà una carica, mi dà una scusa, una motivazione importante. Ma di sicuro non lo farei mai per i signori di Montecarlo e di New York. Lo faccio per questi ammalati perché fanno una tenerezza infinita, è gente che capisce tutto quello che gli accade, compresi i maltrattamenti che gli vengono fatti».
Che ne è stato della sua voglia di vivere?
«Ce l’ho quadruplicata. Vorrei uscire dai miei limiti. Ora sto molto meglio, ma ci vuole una continua volontà di lotta, di sofferenza. Perché questa è una cosa che ti ferisce anche dentro.
Tornare a cantare è sicuramente una cosa che mi può far bene, perché mi fa circolare il sangue e le idee».
Ha scritto anche delle nuove canzoni?
«No. Sono del parere che un artista per creare deve stare bene fisicamente. Non credo che gli artisti malati, se stanno male, creano. Solo uno c’ è riuscito, Chopin, ma è un’eccezione. Per quanto riguarda me, devo sentire di stare perfettamente bene prima di poterlo fare».