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 2020  agosto 06 Giovedì calendario

Hiroshima 75 anni fa

Aveva ancora il cappello bianco in testa, in attesa di appenderlo come ogni mattina all’attaccapanni fuori dall’aula, insieme con la giacca bianca a sette bottoni. Come sempre Akihiro Takahashi era arrivato un po’ in anticipo a scuola e aveva raggiunto i compagni del secondo anno di superiori nel campo da gioco, di fianco all’ingresso. Tra poco ci sarebbe stata la lezione di storia, alla prima ora del lunedì, con i libri che ripetevano ogni mattina l’invocazione patriottica alle truppe giapponesi in guerra ormai da 13 anni: «Andate, o soldati, andate...». Era risuonato un allarme aereo appena un’ora prima, ma subito dopo ecco il segnale che il pericolo era rientrato. In quei casi, si guarda automaticamente il cielo. Era azzurro, bellissimo, dopo le nuvole dei giorni precedenti.
I ragazzi erano abituati agli allarmi, avevano visto le scuole elementari svuotarsi dei loro fratelli più piccoli, per l’ordine di evacuazione generale del governo che aveva ridotto di colpo la popolazione da 381 mila abitanti a 255 mila. Anzi, gli studenti almeno due volte la settimana uscivano in colonna dalla scuola per aiutare la città a difendersi. La squadra di Akihiro, i più giovani, partecipava al lavoro di demolizione delle case che dovevano scomparire per creare linee tagliafuoco nei quartieri del centro, in caso di incendi per i bombardamenti. Hiroshima sapeva di essere un bersaglio, dopo le 100 mila vittime del bombardamento di Tokyo, in marzo. In città c’erano impianti industriali e soprattutto due basi militari, il quartier generale della Quinta Divisione e il centro del sistema difensivo del Giappone-Sud, guidato dal maresciallo Shunroku Hata. Una città di legno, con tetti e pareti a incastro, esposta agli incendi che le bombe della guerra accendevano ovunque.
A scuola ascoltavano la radio e tre giorni prima avevano sentito il primo ministro giapponese, il barone Kantaro Suzuki, annunciare che nelle fabbriche segrete sotterranee l’Impero stava preparando le nuove armi che avrebbero deciso la guerra. Ma Akihiro e il suo amico Tatsuya Yamamoto, probabilmente spinti dalla propaganda militarista, nonostante la guerra volevano diventare soldati, finire in fretta gli studi per entrare in marina o in aviazione. Anche in quel momento vedevano un bombardiere attraversare l’azzurro sopra di loro, altissimo, e più che alle bombe pensavano alle divise, all’avventura, alla velocità e alle battaglie nel cielo.
In quello stesso cielo il colonnello Paul Tibbets stava ripetendo nella mente le operazioni d’emergenza che avrebbe dovuto ordinare dopo pochi minuti, per fuggire dal teatro infernale della bomba atomica che si preparava a lanciare per la prima volta nella storia del mondo proprio su Hiroshima, esattamente a un chilometro e 400 metri dalla scuola di Akihiro. Dunque: sgancio, inversione immediata fino a 178 gradi, picchiata di 500 metri perdendo quota e prendendo velocità, poi via per 2.500 chilometri, lasciandosi alle spalle un’apocalisse sconosciuta, e la sua onda d’urto sovrumana.
Era partito all’1.45 dalla base di Tinian, al comando di un aereo speciale. Era un B-29 Superfortress, numero di serie 44-86292, appena consegnato alle forze armate statunitensi il 18 maggio, poi modificato il 29 giugno nella base di Guam, allargando il vano bombe per poter ospitare l’atomica. Aveva 43 metri di apertura alare, 8.800 cavalli di potenza, volava a 574 chilometri all’ora a 9.467 metri di quota. Tibbets era esperto. In Europa era stato comandante ufficiale del 340° Squadrone Bombardiere, guidando spedizioni nel Mediterraneo. Adesso, guardando l’aereo e pensando alla missione che doveva compiere, il giorno prima dell’operazione lo battezzò col nome di sua madre, Enola Gay.
Su quell’aereo, che il 31 luglio fa l’ultima prova sganciando una finta bomba su Iwo Jima, sale l’intero “Progetto Manhattan”, un esperimento scientifico e militare per arrivare all’atomica prima di Hitler. È il mito dell’arma totale, l’inseguimento della bomba perfetta, il sogno guerresco dell’ordigno finale, definitivo. C’era stato un test, il 16 luglio, ad Alamogordo, nel Nuovo Messico, dov’era esplosa nel deserto una bomba di prova, battezzata “The Gadget”. Harry Truman è appena diventato presidente degli Stati Uniti dopo la morte improvvisa di Roosevelt, il 12 aprile. Sente subito accennare dal ministro della guerra Henry Stimson a un «progetto immenso, l’arma più terribile che si sia mai vista nella storia umana», qualcosa che il responsabile degli armamenti Byrnes giudica «capace di distruggere il mondo intero».
In maggio, nel massimo segreto, Truman istituisce l’"Interim Committee” con due ministri e due scienziati, per decidere l’uso della bomba. Prevale la convinzione che l’atomica, colpendo il Giappone, accorcerà la guerra e convincerà l’Impero alla resa, risparmiando vite di soldati americani e giapponesi rispetto ai piani delle operazioni di terra, con un’invasione del Giappone che secondo i calcoli militari statunitensi poteva costare da 100 a 500 mila morti in combattimento soltanto tra le truppe Usa. Ma c’era un secondo obiettivo: fare «impressione», come dice Stimson, all’Unione Sovietica, che stava lentamente prendendo il suo posto di “nemico ereditario” dell’Occidente, inaugurare una inedita “diplomazia atomica” e impiantare nel fragore apocalittico della bomba il principio della supremazia americana.
Bisogna cercare l’obiettivo. Dev’essere una grande città, vicina a un impianto industriale bellico. In maggio si forma una rosa, con Kyoto, Yokohama, Kokura e Nagasaki. Non c’è Hiroshima, si punta su Kyoto. Ma proprio il carattere culturale e spirituale della città, culla della tradizione, la preserva, escludendola. Entra al suo posto Hiroshima: e quando si accerta infine che è l’unica tra le quattro città della rosa senza un campo per i prigionieri di guerra, viene prescelta.
Parte l’ordine decisivo, firmato il 25 luglio dal capo di stato maggiore generale Thomas T. Handy: il 509° gruppo aereo misto dovrà sganciare la bomba “speciale” (non si parla mai di atomica, per mantenere il segreto sulla natura dell’esperimento) in qualunque giorno dopo il 3 agosto, in base alle cond izioni meteorologiche. Dopo tre giorni di nuvole e tempo incerto, il 6 agosto il cielo si rischiara. Tutto è pronto, l’operazione può scattare. Ma dove cadrà la bomba? Il colonnello Tibbets non lo sa, non lo sa nessuno. Deciderà il tempo.
Proprio la variabilità del clima suggerisce di mandare in avanscoperta un B-29 disarmato, per un controllo meteorologico. L’aereo ricognitore passa tra le nuvole e il sole che sovrastano le quattro città per scegliere dove andrà in scena la fine del mondo. Punta su Kokura, la studia. Poi vira su Hiroshima e quando entra nel cielo della scuola di Akihiro Takahashi dà via radio la notizia che il tempo qui è magnifico. Tibbets risponde «Ricevuto». Adesso c’è silenzio sui tre quadrimotori che stanno arrivando all’appuntamento con la catastrofe. Di fianco all’"Enola Gay” c’è “Great Artiste” con il suo carico di scienziati, segue “Dimples 91”, con i tecnici della fotografia e delle riprese cinematografiche. Tutti pensano all’ordigno lucido che sta per scendere nel vuoto verso il pieno della vita quotidiana di una città giapponese risparmiata fino a quel momento dai bombardamenti ordinari, proprio per misurare meglio gli effetti della bomba. E l’atomica è ormai sopra il suo bersaglio. È la sua ora, è pronta nei suoi 3 metri di lunghezza, nel diametro di 71 centimetri, nel peso di 4 tonnellate, nei 64,1 chili di uranio arricchito. L’hanno chiamata “Little Boy”.
È in questo momento che sotto la squadriglia alta nel cielo giapponese il professore di storia esce dalla scuola, entra di corsa nel campo da gioco del ginnasio dove i ragazzi stanno aspettando che arrivi l’ora di entrare in classe, sta urlando. Agita le braccia, ha appena il tempo di gridare «Attenzione”. Non c’è lo spazio per fare nulla. Un minuto prima, alle 8.14, Tibbets dà l’ordine al puntatore Tom Ferebee di mirare al ponte Aioi, con la forma a T riconoscibile dall’alto. Alle 8.15 di quel lunedì 6 agosto 1945 il cielo diventa all’improvviso nero su Hiroshima, il rombo dell’esplosione è insopportabile, immediatamente sopra la città, a 580 metri di altezza, dopo una caduta libera della bomba di 43 secondi. In quel punto e in quel momento la temperatura arriva a 60 milioni di gradi centigradi, dieci volte più del sole. Scioglie il ferro, distrugge le case, polverizza i campi, cancella gli uccelli, uccide sul colpo 80 mila persone, ne ferisce 70 mila. L’onda è come un vento di morte che viaggia a tremila metri al secondo, l’urto sviluppa sette tonnellate per metro quadrato.
Nel cortile dei giochi Akihiro viene scaraventato a 10 metri di distanza, batte il capo, perde conoscenza. Non ha visto niente, nemmeno il colore della fine del mondo che ha attraversato in un lampo la mente di tutti, un blu intenso che non esiste nella realtà, qualcuno dice seguito dal verde, qualcuno attraversato dal bianco. Quando apre gli occhi la scuola non c’è più, intorno Hiroshima è sparita, con il 90 per cento delle case distrutte, la divisa scolastica è bruciata e i brandelli si incollano alla carne viva, perché la pelle scivola dal corpo, dal viso, da lla testa senza più capelli. Il ragazzo si tocca il viso, guarda gli altri, non capisce, è terrorizzato. Ricorda le istruzioni nelle esercitazioni di emergenza: in caso di attacco e di bombardamento, correre al fiume, che è lì vicino. Corrono in molti, ma subito si fermano. Strade e campi sono piene di macerie di edifici distrutti, che adesso stanno bruciando, mentre scende una pioggia che non spegne le fiamme, ma deposita le polveri sollevate dall’esplosione e rese radioattive.
Si cammina carponi, si passa sopra i cadaveri, una vecchia con un occhio che pende fuori dall’orbita, un bambino morente, corpi irriconoscibili, bruciati, consumati, sciolti, ridotti a un’impronta sulla pietra. L’incendio avanza, preme, circonda. Un piccolo ponte mette in salvo gli studenti sopravvissuti: 46 su 60 compagni di Akihiro sono morti. Adesso tutti si gettano nell’acqua, cercano rifugio dalle fiamme e sollievo dalle ferite, ma anche il fiume sembra bruciare, mentre scorrono tutt’intorno i cadaveri, uomini e donne, ragazzi, un cavallo, un cimitero che scivola sull’acqua.
Una voce chiama Akihiro mentre sta cercando la strada per tornare a casa nella città che non ha più una geografia, tra le rovine. È Tokujiro Hatta, abita vicino a lui, frequenta un’altra classe nella stessa scuola, spesso hanno fatto la strada insieme. Ma la strada non c’è più e Tokujiro non riesce a camminare, la pelle sulla pianta dei piedi sembra liquefatta, può andare avanti solo carponi, come un cane, quando non ce la fa più marcia sui talloni appoggiando la schiena su Akihiro, esausto. Ha il gomito bloccato per sempre, tutte le dita della mano destra meno il pollice piegate e inutilizzabili, piaghe e ustioni in tutto il corpo che curerà per un anno e mezzo, mentre l’epatite e i cheloidi nonostante 14 ricoveri ospedalieri non guariranno mai.
Ma quel giorno conta solo salvarsi, sopravvivere. I medici non conoscono i segreti dell’atomica, non capiscono l’origine del male, non sanno come curarlo. L’impronta della bomba è spaventosa dovunque la si guardi. Quel gigantesco fungo sconosciuto oscura il sole per giorni e sembra aver cambiato anche la natura e l’ambiente intorno alla città, per sempre, come una maledizione. La potenza della bomba non è soltanto nella sua esplosione, ma nella capacità di continuare a uccidere per le radiazioni avvelenate, per le necrosi causa del decesso di migliaia di persone che erano riuscite a sopravvivere al giorno dell’esplosione. Si parla di 200 mila abitanti della città annientata che con la loro scomparsa progressiva continuava a morire nel corso degli anni: anche mentre si ricostruiva gettando un metro di terra sul cimitero dell’orrore che oggi si calpesta nella vita ritrovata.
Dentro questa promessa eterna del male che si rinnova sta il fondo dell’abisso della guerra, dopo l’Olocausto. A partire dalla replica dell’atomica a Nagasaki, tre giorni dopo Hiroshima. Gli “hibakusha”, i sopravvissuti di quel giorno, sono combattuti tra il dovere di testimoniare e il peso della fortuna di essere scampati. Parlano, ma per dire che non si può raccontare l’indicibile. D’altra parte il 5 agosto ’45 furono scattate solo dieci fotografie della città che bruciava spegnendosi. Anni dopo, in Giappone è spuntata dalla cantina di una scuola un’istantanea in bianco e nero del fungo atomico. Soltanto nel 2008 dal fondo Hoover dell’Università di Stanford sono riemerse altre dieci istantanee che un soldato americano, Samuel Capp, trovò nelle tasche di un cadavere a Hiroshima, e tenne segrete per 50 anni, prima di permettere a Stanford di renderle pubbliche, ma solo a 63 anni di distanza dalla tragedia, dopo che l’America aveva portato un futuro presidente come Nixon e un ex presidente come Carter a rendere omaggio a Hiroshima. Sono immagini di corpi ammassati e consumati, uomini che sembrano manichini, ammassi di braccia e di gambe: scattate da un sopravvissuto condannato dalla bomba, che aveva voluto registrare ciò che vedeva prima di morire, perché servisse a chi continuava a vivere. Dev’essere questa impronta della morte che contende la memoria della città alle impronte della vita, fissate sui muri dalla bomba, la missione perenne di Hiroshima. Probabilmente il maggiore Ferebee, dopo aver sganciato l’atomica, aveva intravisto un primo segno di tutto questo, se si rivolse al colonnello Tibbets dicendo: «Mio Dio, cosa abbiamo fatto». Dal sottosuolo incandescente della città colpita, Akihiro Yakahashi mentre l’aereo se ne andava giurò da quel giorno di «vivere per conto degli amici morti». Anni dopo donò i vestiti bruciati dalla bomba al Museo della Pace, di cui poi diventerà direttore. Tibbets divenne presidente di una società di aerotaxi e nelle conferenze, rispondendo alle domande sulla bomba, diceva di dormire tranquillamente la notte. Ma quando nel 1980 Akihiro e Tibbets si incontrarono a Washington, per ricordare la tragedia di Hiroshima in un mondo che ancora oggi conta 13.400 testate nucleari, e si strinsero la mano davanti alle televisioni americana e giapponese, Tibbets pianse. Il dialogo è continuato per lettera: finché i due sono morti nello stesso anno, il 2007, come se il destino che li aveva collegati quel giorno di fuoco non riuscisse a scioglierli.