la Repubblica, 6 agosto 2020
Beirut e la guerra nel destino
Sono luoghi comuni, al punto che anche chi non ci ha mai messo piede li conosce: c’è la città che non dorme mai e quella che mai ha pace (e mai l’avrà). La seconda è Beirut. Poi hanno distrutto Sarajevo, Falluja, Aleppo, ma il sinonimo universale del tormento senza soluzione è rimasto quel nome: Beirut.
Mentre scrivo queste righe ho in sottofondo la voce di Fairouz, “nostra ambasciatrice presso le stelle”, che da decenni si leva dolente dalle ricorrenti macerie. La più straziante delle sue canzoni è questa Li Beirùt : «La città è fatta delle anime della gente, di vino e sudore, pane e gelsomini, perché allora il suo sapore è diventato quello del fuoco e del fumo?». È una domanda retorica, piove come cenere sui detriti ogni volta che ingombrano le strade. Per conoscere la risposta bisogna aver respirato l’odore della distruzione che mischia il metallo e la carne, camminato sulle rovine con chi le ha portate dentro di sé, amato in modo oscuro la notte dietro le quinte degli edifici diroccati più che nei bunker trasformati in discoteche. E, sopra tutto, issato la bandiera dell’impermanenza sotto quel cielo di ogni cosa e persona.
Il 14 febbraio del 2005, quando un ordigno sul lungomare fece saltare in aria il convoglio dell’ex premier Rafiq al-Hariri, ero in un negozio a poco più di un chilometro di distanza, all’inizio del quartiere cristiano di Gemmayzeh. Un tuono assordante, mentre le vetrine vibravano. Da giorni i jet israeliani sorvolavano la città a bassa quota infrangendo il muro del suono per impaurire la popolazione. Uscii in strada guardando verso l’alto, ma un vecchio sul marciapiede, seduto su una seggiola scassata, mi indicò il cuore della città. Disse una sola parola: «Ainfijar!», esplosione. Più ancora che un rumore, aveva riconosciuto un destino.
In Occidente si racconta una Beirut prima e dopo la guerra civile come affiancando due ritratti di una donna che è stata bellissima, poi sfregiata da un incidente e da una serie di interventi che, anziché curarla, hanno fatto rivivere il trauma. “La Parigi del Medio Oriente”, per giunta con le palme sul porto dove si cullavano gli yacht dei bancarottieri, le notti da espatriati in hotel, con le odalische sotto il baldacchino erano cartoline infradiciate, alla deriva sull’acqua. Tanti saluti all’"età dell’oro” li ha scritti la siriana Ghada Samman nel suo romanzo Beirut Nightmares : «La bella vita che così tanti associano a quella Beirut riguardò una esigua minoranza degli abitanti, mentre la stragrande maggioranza soffriva la fame, l’ignoranza, le malattie, la povertà. Poi venne una guerra sporca, ma fece seguito a una sporca pace». Nel fragore e nel pericolo la città ha riconosciuto la propria vocazione, ha livellato le sorti personali, elevato l’esistenza quotidiana a un grado di suspense impensabile e, per quanto possa essere difficile comprenderlo, irrinunciabile. Si è creata una sorta di dipendenza, come agli individui capita con l’alcol o la droga. Il lutto collettivo è un fiume carsico che attraversa silenziosamente il sottosuolo e a intervalli affiora con un’esplosione. Non prevedibile, eppure attesa. Esiste una branca della criminologia chiamata vittimologia che studia la predisposizione di alcuni individui a subire offese a ripetizione. In parte diventa una loro seconda natura, in parte un’etichetta sulla quale gli altri infieriscono. Scomparse dal cartellone mondiale le guerre di teatro è rimasto il teatro della guerra: Beirut.
Il ragazzo tra le macerie citato in tutti i reportage di ieri che accusa «una maledizione» sulla sua terra sconta la giovane età e confonde ciò che è ancora esterno, esorcizzabile, con ciò che è entrato dentro, scorre nelle vene. Tutto quello che accade a Beirut è una replica, segue uno schema. Prendete il miglior romanzo recente che vi sia stato ambientato, Il gioco di De Niro, di Rawi Hage, leggete queste righe: «Le bombe piovevano come rovesci monsonici nell’India lontana. Io ero disperato e smanioso, avevo bisogno di un lavoro migliore e di soldi. Lavoravo al porto, manovravo l’argano. Scaricavamo le armi dalle navi» e più in là: «Una bomba è caduta nella via accanto. Ho sentito le urla, ormai doveva esserci un fiume di sangue. Ho aspettato; la regola era aspettare la seconda». Era già tutto letteralmente scritto: le armi al porto, la doppia esplosione. Come fosse già accaduto, perché lo era e, quel che è più terribile, lo sarà di nuovo. Le verità non sono sepolte, galleggiano. Nella sera di San Valentino del 2005 mentre i professionisti del depistaggio raccontavano favole evocando perfino “il cartello dei diamanti” i vecchi sulle seggiole scassate si facevano solo due domande: «A chi giova?» e «Chi può farlo?». Ripondendosi: «Siria» e «Hezbollah», anticipando 15 anni di commissioni d’inchiesta internazionali. Conoscono le risposte anche stavolta. E la prossima.