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 2020  agosto 06 Giovedì calendario

Gli atleti e la depressione

Il peso dell’eredità di Usain Bolt, gli Stati Uniti sulle spalle, uno sprint (9”86 nei 100 metri, 19”50 nei 200: tanta roba, cioè) mai abbastanza vincente. «Ho deciso di prendere farmaci antidepressivi. Ora sono di nuovo in grado di pensare senza avere in testa la venatura nera che niente importa» ha twittato il nuovo dio della velocità, l’americano Noah Lyles, campione del mondo in carica nel mezzo giro di pista, 23 anni appena compiuti, scatenando un’onda di solidarietà perché non è sempre vero che citius, altius, fortius . A volte il fuoriclasse dello sport è depresso.
Gigi Buffon la raccontò in un bel libro («All’inizio la scambi per stanchezza, poi un giorno ti alzi dal letto con le gambe che tremano»), a Yannick Noah non bastò vincere il Roland Garros, lo Slam di casa, per salvarsi dalla depressione, a Thierry Henry, bomber straordinario, impediva di esultare dopo un gol (caterve di reti, mai un sorriso), lo sciatore Bode Miller provò a gestirla con l’irriverenza con cui trattava le medaglie (attaccate allo sciacquone del bagno) ma non bastò. Michael Phelps, il nuotatore più vincente della storia del cloro, ne fu travolto: «Il suicidio era diventato un pensiero fisso».
Greg Paltrinieri, uno che di acqua se ne intende, prova a spiegare l’horror vacui che spesso segue un trionfo: «Ero orgoglioso e fiero, ma la vittoria olimpica non era neppure la metà di quella gioia pura e istintiva che ho vissuto da bambino quando ho superato mio padre in mare. Vincere è una gioia a metà». Soprattutto quando, dopo aver inseguito il sogno di una vita, ti ritrovi solo in una stanza d’albergo. «L’euforia per una grande conquista dura dai 30’’ al minuto, poi c’è il down, la malinconia – ricorda Adriano Panatta, indimenticato protagonista di un triplete datato 1976 (Roma, Parigi, Coppa Davis) —. Io dopo una finale ero sfinito: fisicamente ed emotivamente, vuoto».
Odi et amo, l’eterno tormento dei campioni fragili. Andre Agassi ci ha surfato sopra per tutta la carriera («Detesto il tennis con tutto il cuore, eppure continuo a giocare»), Federica Pellegrini ha sconfitto gli attacchi di panico, José Marie Perec fuggì nella notte da un’Olimpiade erta come l’Himalaya (Sydney 2000), la vetta priva di ossigeno su cui avrebbe dovuto sfidare la rivale Cathy Freeman.
La storia dello sport è zeppa di turbamenti che sarebbero piaciuti a Freud, non a caso negli Usa spopola su Hbo il documentario «Weight of gold» che punta i fari sulle molto umane vicende di Gracie Gold, 24 anni, bronzo a Sochi 2014 nella gara a squadre di pattinaggio, così candida (o disperata) da affermare: «Quando non sono stata più in grado di reggere il peso della perfezione, ho pensato solo a salvare me stessa».
Lyles, l’anima sottile che al Mondiale di Doha dell’anno scorso aveva provato a mascherare sotto la tinta dei capelli l’insostenibile pesantezza del non essere Bolt, corre verso Tokyo, l’Olimpiade posticipata dalla pandemia nella quale proverà ad essere all’altezza dei suoi fantasmi: «Ci sono tanti atleti forti, ma l’eccellenza non è per tutti». Un territorio esplorato da pochi coraggiosi. «Vincere va a smuovere cose profonde – spiega la psicologa dello sport Marcella Marcone —, fa riemergere antichi sensi di colpa: nei confronti di un fratello o di un compagno di squadra meno fortunati. Il bambino che è in noi, inoltre, ha un’atavica paura della punizione: se finalmente ho tutto ciò che desidero, si chiede, con quale castigo pagherò questa fortuna sfacciata?».