6 agosto 2020
In morte di Sergio Zavoli
Aldo Grasso, Corriere della Sera
Sergio Zavoli ha incarnato la parte migliore della Rai. È stato tutto quello che si augurerebbe di essere un «uomo Rai»: giornalista di celebri inchieste che hanno fatto la storia della radio e della tv, inventore del mitico Processo alla tappa, direttore del Gr1, condirettore del Tg1, presidente di Viale Mazzini. Dal 1980 al 1986 ha infatti gestito l’azienda in una fase difficile, segnata dalla fine del monopolio e dalla nascita dell’emittenza privata. Dalla seconda metà degli anni 80 è ritornato in video come conduttore di inchieste come La notte della Repubblica (1989) o Nostra padrona televisione (1994). Ha guidato anche la Commissione di Vigilanza nella vana speranza che non dovessero essere i partiti a controllare la Rai, a invadere gli spazi dei tg, a scegliere i dirigenti di Viale Mazzini. Forse la sua unica battaglia persa.
Ha cominciato a lavorare nel 1947 al Giornale Radio diretto da Antonio Piccone Stella, distinguendosi presto per il taglio dei suoi documentari, detti appunto «all’italiana», da Scartamento ridotto a Notturno a Cnosso, che si aggiudicò il Premio Italia nel 1954. Un secondo Premio Italia gli fu assegnato nel 1957 per Clausura, la celebre inchiesta sulle suore che fece il giro del mondo, tradotta in sei lingue. Passato al video all’inizio degli anni 60, ha raggiunto la maturità professionale firmando servizi speciali per le rubriche giornalistiche TV7, AZ, Controcampo, Incontri. Aziendalista rigoroso, è stato condirettore del Tg1 dal 1969 e direttore del Gr1 dal 1976. La guerra d’Algeria (1962), Processo alla tappa (1962-69), Un codice da rifare (1970), Nascita di una dittatura (1972) restano i suoi lavori più significativi del periodo precedente la carriera dirigenziale. Dalla seconda metà degli anni 80 è ritornato in video come conduttore delle inchieste-dibattito Viaggio intorno all’uomo (1987), La notte della Repubblica (1989), Nostra padrona televisione (1994), Credere o non credere (1995), Viaggio nella giustizia (1996), C’era una volta la prima Repubblica (1998), Viaggio intorno alla parola (2001) in cui ha affrontato temi di gran peso sociopolitico con accuratezza d’indagine, cedendo appena a uno stile calligrafico e accademico, proprio del suo giornalismo.
Di tutte le trasmissioni, meritano di essere ricordate con particolare attenzione (oltre a Clausura, pietra miliare della radiofonia) le due che più hanno inciso sul costume e sulla vita pubblica: Processo alla tappa e La notte della Repubblica. Al termine di ogni tappa del Giro, Sergio Zavoli intenta un processo alla corsa (il programma era iniziato il 20 maggio 1962 e terminerà nel 1969). Sono commenti del dopocorsa, un modo diverso di raccontare le fatiche dei ciclisti, carpendo (magari in moto, durante la corsa) le emozioni più nascoste ad atleti sfigurati dalla fatica.
Racconta Zavoli: «Scoprivamo il ciclismo di Baldini, Adorni, Gimondi, le loro sfide con Anquetil, Merckx. C’erano anche Zilioli, Motta. E Taccone sregolato e geniale. Aveva fama di malvagio. Disse: “Devo essere lupo perché ho fame, la mia famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una rapina”. Insieme con loro pedalava una folla di povera gente: arrivavano in fondo al Giro con ore di ritardo e non si capiva perché facessero i corridori». La grande trovata del Processo è appunto quella di mescolare la domanda colta di Zavoli con la risposta stenta del corridore. E di usare l’artificio letterario del Grand Tour per l’allora più prosaico Giro d’Italia. «Processo alla tappa — scriveva nel 1966 Gianni Clerici – è un vero e proprio spettacolo, con tanto di palcoscenico, di attori protagonisti, di comparse, di drammi, di battibecchi: un copione su cui si deve improvvisare come nella commedia dell’arte, e alcune maschere a cui i corridori si adeguano: lo spaccone, il timido, il chiacchierone e il taciturno, lo smaliziato e l’ingenuo».
Battaglie
Cercò di liberare la tv di Stato dalle ingerenze politiche: la sua unica battaglia persa
La notte della Repubblica è la lunga inchiesta televisiva dedicata agli anni più bui e travagliati della storia nazionale: gli anni di piombo. Fu infatti trasmesso il 12 dicembre 1989, anniversario di Piazza Fontana. Il programma, in 18 puntate, si proponeva (si propone ancora, su Rai Play) di ripercorrere la storia degli anni bui della democrazia italiana, dalle bombe in Piazza della Loggia a Brescia al terrorismo delle Brigate Rosse e di Prima Linea, dal golpismo strisciante al caso Moro, dalla strage della stazione di Bologna (1980) al rapimento Dozier e all’assassinio, allora recentissimo, del senatore Roberto Ruffilli (1988).
Ogni puntata, della durata di due ore e mezza, si compone di una prima parte che ricostruisce, attraverso filmati e testimonianze, l’evento o il periodo preso in esame; segue una esauriente intervista di Zavoli a un protagonista della vicenda; infine, un dibattito con ospiti in studio cerca di approfondire il tema.
Due anni di preparazione per realizzare una quarantina di interviste, 150 testimonianze, oltre 1.000 ore di filmati e un centinaio di schede e identikit fanno del programma uno straordinario tentativo di raccontare e documentare, con grande onestà intellettuale, senso delle istituzioni e intensa partecipazione umana, quella lunga parentesi violenta della storia italiana.
Sergio Zavoli ha incarnato la parte migliore della Rai. È stato tutto quello che si augurerebbe di essere un «uomo Rai»: giornalista di celebri inchieste che hanno fatto la storia della radio e della tv, inventore del mitico Processo alla tappa, direttore del Gr1, condirettore del Tg1, presidente di Viale Mazzini. Dal 1980 al 1986 ha infatti gestito l’azienda in una fase difficile, segnata dalla fine del monopolio e dalla nascita dell’emittenza privata. Dalla seconda metà degli anni 80 è ritornato in video come conduttore di inchieste come La notte della Repubblica (1989) o Nostra padrona televisione (1994). Ha guidato anche la Commissione di Vigilanza nella vana speranza che non dovessero essere i partiti a controllare la Rai, a invadere gli spazi dei tg, a scegliere i dirigenti di Viale Mazzini. Forse la sua unica battaglia persa.
Ha cominciato a lavorare nel 1947 al Giornale Radio diretto da Antonio Piccone Stella, distinguendosi presto per il taglio dei suoi documentari, detti appunto «all’italiana», da Scartamento ridotto a Notturno a Cnosso, che si aggiudicò il Premio Italia nel 1954. Un secondo Premio Italia gli fu assegnato nel 1957 per Clausura, la celebre inchiesta sulle suore che fece il giro del mondo, tradotta in sei lingue. Passato al video all’inizio degli anni 60, ha raggiunto la maturità professionale firmando servizi speciali per le rubriche giornalistiche TV7, AZ, Controcampo, Incontri. Aziendalista rigoroso, è stato condirettore del Tg1 dal 1969 e direttore del Gr1 dal 1976. La guerra d’Algeria (1962), Processo alla tappa (1962-69), Un codice da rifare (1970), Nascita di una dittatura (1972) restano i suoi lavori più significativi del periodo precedente la carriera dirigenziale. Dalla seconda metà degli anni 80 è ritornato in video come conduttore delle inchieste-dibattito Viaggio intorno all’uomo (1987), La notte della Repubblica (1989), Nostra padrona televisione (1994), Credere o non credere (1995), Viaggio nella giustizia (1996), C’era una volta la prima Repubblica (1998), Viaggio intorno alla parola (2001) in cui ha affrontato temi di gran peso sociopolitico con accuratezza d’indagine, cedendo appena a uno stile calligrafico e accademico, proprio del suo giornalismo.
Di tutte le trasmissioni, meritano di essere ricordate con particolare attenzione (oltre a Clausura, pietra miliare della radiofonia) le due che più hanno inciso sul costume e sulla vita pubblica: Processo alla tappa e La notte della Repubblica. Al termine di ogni tappa del Giro, Sergio Zavoli intenta un processo alla corsa (il programma era iniziato il 20 maggio 1962 e terminerà nel 1969). Sono commenti del dopocorsa, un modo diverso di raccontare le fatiche dei ciclisti, carpendo (magari in moto, durante la corsa) le emozioni più nascoste ad atleti sfigurati dalla fatica.
Racconta Zavoli: «Scoprivamo il ciclismo di Baldini, Adorni, Gimondi, le loro sfide con Anquetil, Merckx. C’erano anche Zilioli, Motta. E Taccone sregolato e geniale. Aveva fama di malvagio. Disse: “Devo essere lupo perché ho fame, la mia famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una rapina”. Insieme con loro pedalava una folla di povera gente: arrivavano in fondo al Giro con ore di ritardo e non si capiva perché facessero i corridori». La grande trovata del Processo è appunto quella di mescolare la domanda colta di Zavoli con la risposta stenta del corridore. E di usare l’artificio letterario del Grand Tour per l’allora più prosaico Giro d’Italia. «Processo alla tappa — scriveva nel 1966 Gianni Clerici – è un vero e proprio spettacolo, con tanto di palcoscenico, di attori protagonisti, di comparse, di drammi, di battibecchi: un copione su cui si deve improvvisare come nella commedia dell’arte, e alcune maschere a cui i corridori si adeguano: lo spaccone, il timido, il chiacchierone e il taciturno, lo smaliziato e l’ingenuo».
Battaglie
Cercò di liberare la tv di Stato dalle ingerenze politiche: la sua unica battaglia persa
La notte della Repubblica è la lunga inchiesta televisiva dedicata agli anni più bui e travagliati della storia nazionale: gli anni di piombo. Fu infatti trasmesso il 12 dicembre 1989, anniversario di Piazza Fontana. Il programma, in 18 puntate, si proponeva (si propone ancora, su Rai Play) di ripercorrere la storia degli anni bui della democrazia italiana, dalle bombe in Piazza della Loggia a Brescia al terrorismo delle Brigate Rosse e di Prima Linea, dal golpismo strisciante al caso Moro, dalla strage della stazione di Bologna (1980) al rapimento Dozier e all’assassinio, allora recentissimo, del senatore Roberto Ruffilli (1988).
Ogni puntata, della durata di due ore e mezza, si compone di una prima parte che ricostruisce, attraverso filmati e testimonianze, l’evento o il periodo preso in esame; segue una esauriente intervista di Zavoli a un protagonista della vicenda; infine, un dibattito con ospiti in studio cerca di approfondire il tema.
Due anni di preparazione per realizzare una quarantina di interviste, 150 testimonianze, oltre 1.000 ore di filmati e un centinaio di schede e identikit fanno del programma uno straordinario tentativo di raccontare e documentare, con grande onestà intellettuale, senso delle istituzioni e intensa partecipazione umana, quella lunga parentesi violenta della storia italiana.
***
Filippo Ceccarelli, la Repubblica
Nell’ultima fase della sua lunga vita, ricca di lavoro e successi, di incarichi e riconoscimenti, Sergio Zavoli aveva preso a scrivere poesie. Come se la parola del giornalismo e quella ufficiale della vita pubblica non gli bastassero più; ma anche come se fosse questo l’estremo modo per rimanere in sintonia con un tempo che sentiva sempre più frammentato, istantaneo, denso di messaggi al tempo stesso emotivi e dispersivi. A conoscerlo di persona, anche sul lavoro, colpiva in lui, insieme a un certo rigore d’altri tempi, una inconsueta vena fra il romantico e il meditabondo, là dove la consapevolezza di esercitare sui più giovani un magistero s’accompagnava a un’attitudine perfino teatrale, quella stessa che probabilmente gli aveva consentito di realizzare le più indimenticabili interviste della storia televisiva italiana. Ma siccome poi era anche un tipo da non perdersi in pose e tantomeno in chiacchiere, e aveva anzi una gran capacità di concretizzare i suoi sforzi, ecco che Zavoli, già imperatore del reportage radio televisivo, pubblicò non uno, ma quattro o cinque libri di poesie, a coronare un’attività di scrittore che, anche come qualità, ha pochi eguali in questo tempo arruffone.
Diceva di sé: «Sono uno che, se potesse, scriverebbe con la penna d’oca». Però subito ti faceva capire che aveva studiato e compreso internet, la rete, i social, la comunicazione istantanea e gli sconvolgimenti che la tecnologia poteva arrecare a un uomo che era nato, come lui, nel 1923. Ma al quale la vita aveva impresso «il segno di un ostinato ottimismo».
Quindi in pratica Zavoli non si fermava mai, ultranovantenne in giro per l’Italia a raccogliere premi, a tenere lectiones magistrales, come pure nelle occasioni importanti, quando la differenza di un voto poteva significare molto, non mancò mai sugli scranni del Senato, presenza rimarchevole, esempio di dedizione in un Parlamento ormai ridotto a vivaio di assenteisti. Tale la vitalità, pochi anni orsono, da resistere coraggiosamente anche all’irruzione di alcuni banditi nella sua magnifica villa, già appartenuta a un cardinale, in cima ai Castelli romani.
E insomma se n’è andato ieri un personaggio di cui si può dire senza retorica che ha fatto non solo bene, ma con dignità tutto quello che le circostanze gli hanno offerto e che comunque lui, da quando era poco più che un ragazzo fino all’ultimo, ha via via scelto di fare con dedizione pari al successo. Saggi letterari sugli autori della sua Romagna. Straordinaria radiofonia: vedi il brivido della cronaca e l’epica del ciclismo. Documentari: splendido quello, a metà degli anni ’50, sulle monache di clausura. Poi televisione, per la quale agli albori Zavoli ha inventato format anticipatori e di enorme successo come Il processo alla tappa . E divulgazione storica come il 33 giri con Enzo Biagi, Dieci anni della nostra vita, straordinario modello che con impressionante preveggenza teneva insieme i grandi eventi della guerra con la quotidianità – abitudini, linguaggi, stili di vita, canzoni, voci, rumori – di due o tre generazioni. Quel che si dice, e senza nemmeno far ricorso ai luoghi comuni, “un Maestro”. Che ha lasciato nelle memoria dei telespettatori di un altro paio di generazioni inchieste indimenticabili come Nascita di una dittatura e La notte della Repubblica , sugli anni di piombo.
Subito dopo la riforma del servizio pubblico fu scelto come direttore del Gr1, radiogiornale laico. E fece bene. Poi, alla metà degli anni ’80 Bettino Craxi, dopo averne bruciati due dei suoi, lo impose presidente della Rai; e su quella scrivania non furono per lui anni tranquilli dato che i suoi stessi sponsor, affamati di potere televisivo e incapaci di accontentarsi, lo tiravano da una parte e dall’altra. Nell’azienda del servizio pubblico dovette dar fondo a un’insospettabile riserva di diplomazia, ma alla fine, per giunta da "a-craxiano", trovò il modo di cavarsela senza ombre né macchie. O se si preferisce, considerato un certo afflato spirituale che in diversi scambiavano per civetteria, rispetto al vero potere riuscì a salvarsi l’anima.
A viale Mazzini, inesausta fucina di soprannomi più o meno beffardi, lo chiamavano “Lacrima Christi”, oppure “Il commosso viaggiatore”. Ma nell’intitolare la sua autobiografia Zavoli scelse un terzo nomignolo: “Socialista di Dio”. A ripensarci oggi, erano riferimenti che trovavano un senso compiuto in una continua, a volte entusiasmante, a volte problematica ricerca.
Ha spiegato un giorno: «Ho fatto per cinquant’anni il mestiere di chiedere, ma ricordo un centinaio di risposte». E gli piacque di menzionarne gli autori: Paolo VI, Schweizer, Rostand, Braque, l’allora sacerdote Ratzinger, Toynbee, Braudel, Abbagnano, Galbraith, Eliot, Borges, Silone, Bobbio, Severino, Luzi, Fellini, «e cito in disordine» aggiunse da inguaribile perfezionista.
A scorrere quei nomi, era la miglior cultura che un inviato speciale di riguardo poteva avvicinare nel secolo scorso. Ma subito Zavoli annullava l’effetto di quello sfoggio di geni aggiungendo una considerazione che oltrepassava gli orizzonti della cronaca e forse anche della storia: «Ogni età si rifà le stesse domande».
Uomo profondo, dote oggi piuttosto rara. Flessibile e insieme intransigente. In tarda età, quando in fondo poteva ritirarsi carico di gloria, si trasferì a Napoli per dirigere Il Mattino .
Ma quella che lui non avrebbe mai chiamato "carriera" non era ancora finita perché, specialmente su richiesta di Walter Veltroni, nel 2001 accettò di presentarsi alle elezioni nelle liste dei Ds. Fu rieletto con l’Ulivo nel 2006 e due anni dopo con il Pd. A 86 anni divenne presidente della Commissione di Vigilanza Rai. Nel frattempo l’Italia era orribilmente cambiata e quel che Zavoli osservava, valutava e interpretava da quel particolare osservatorio faceva uno strano effetto, come di voce preziosa che trovava in se stessa la ragione di esserci. Voce, lingua, parola che ancora chiedeva quel poco o quel molto che solo l’esperienza umana racchiude e distribuisce, «tra rinunce e ritorni, grigiori e lucentezze, estro e lavoro da dover governare più sottraendo che aggiungendo. Scrivere versi – insisteva – è un continuo cercare l’essenziale».