Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 05 Mercoledì calendario

Storia di Beirut

Il tempo delle bombe, esplose accidentalmente o fatte saltare, non passa mai a Beirut. Il fumo nerastro e gli sbuffi color ruggine tornano a riempire il cielo subito dopo il rumore che picchia le orecchie come uno schiaffo, i vetri rotti e le sirene delle ambulanze. Nelle foto delle capitali arabe degli anni cinquanta,è fissato un mondo di compostezza borghese, a patto di non allontanarsi troppo dai palazzi governativi certo, che la modernità di oggi, cresciuta tra lusso e miseria, appare molto meno rassicurante.
Così è Beirut che avevamo imparato nei primi anni ’80, già in piena guerra civile, a chiamare «capitale della Svizzera del Medio Oriente» pensando sempre al latitante Felicino Riva, bancarottiere del Cotonificio Vallesusa ed ex presidente del Milan, che se la spassa in motoscafo. Ma non era la Svizzera, e tanto meno lo stato cristiano maronita che i francesi si erano illusi di costruire in mezzo a un Paese a maggioranza musulmana. Le tensioni settarie e l’arrivo nel 1948 e nel 1947 dei palestinesi cacciati dalle loro case, stavano divorando una società con un grande futuro alle spalle.
Facile giocare con la proverbiale voglia di vivere, con la leggerezza della capitale che come Sisifo torna a spingere il macigno della ricostruzione dopo 15 anni di guerra civile, tre invasioni israeliane, 150 mila morti e 17 mila scomparsi nel nulla. E poi la guerra in Siria che ha aggiunto i campi profughi siriani a quelli palestinesi e nuove bocche senza lavoro da sfamare. E le autobomba e gli attentati che tornano appena si cominciava a dimenticarli.
Le esplosioni di ieri sono avvenute proprio vicino al cuore pulsante della capitale, la grande piazza dei Martiri dove un tempo c’era un cinema a forma di astronave di cui rimane ancora la carcassa, dove ci sono gli albergoni lussuosi sulle cui terrazze si balla e si bevono cocktail fino al mattino e una bottiglia di champagne costa come lo stipendio di uno statale, dove comincia Gemmayze Street con i suoi bar e locali molto raccomandati, in zona cristiana, dove dall’altra parte c’è Solidare, il lussuoso quartiere costruito dagli Hariri, la più influente dinastia politica sunnita degli ultimi anni. Proprio il padre di Saad, Rafiq Hariri, primo ministro come il figlio, fu ucciso al Saint George Hotel, al porto, il 14 febbraio 2005. In questi giorni si attende il verdetto del processo per il suo assassinio, di cui sono accusati uomini di Hezbollah, la milizia sciita che può schiacciare l’esercito libanese quando vuole.
Tra i paradossi di una città con ancora le cicatrici della guerra civile e degli scontri confessionali, strumentalizzati dai grandi giocatori internazionali che piegano la legittima retorica dei diritti ai loro interessi particolari, c’è il fatto che nonostante tutto, Beirut è una delle città più laiche e vivibili del Medio Oriente. A modo suo, rispettando la geografie delle aree confessionali, ma non c’è un altro posto dove uno possa vivere come vuole, senza gendarmi della moralità che ti sorvegliano, come accade in Arabia Saudita e nel (comparativamente meno severo) Iran.
Il disastro di ieri non si è abbattuto questa volta su una nazione in ripresa, ma su una capitale devastata dalla crisi economica, la peggiore dalla fine della guerra civile, a cui si aggiunge il Covid. La lira libanese ha perso l’80 per cento del suo valore, il prodotto interno lordo è crollato oltre il 13 per cento, i capitali stranieri non arrivano più. Poi c’è il virus, circa 200-300 casi al giorno anche se la mortalità non è particolarmente alta.
Povera Beirut, meglio andarci piano con gli stereotipi.