La Stampa, 4 agosto 2020
Baldassarre, l’amico perfetto di Raffaello
Accadde tutto in una manciata di anni, una ventina o poco meno. A Urbino, città magica dal tempo sospeso, si levò lo zefiro del Rinascimento, grazie agli intrecci che, per matrimonio e per affinità intellettive, unirono le corti favolose di fine Quattrocento (Mantova, Milano e Ferrara, oltre alla capitale dei Montefeltro; con Firenze e la Roma dei Papi incombenti all’orizzonte) e grazie a un cenacolo di uomini di genio, amanti della vita, che letteralmente ricrearono il mondo: Pietro Bembo, Giulio Romano, Luca Pacioli, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Cesare Gonzaga, Ludovico di Canossa e naturalmente il Bramante, che presto andò a Milano e a Roma ma che qui era nato. Oggi proprio nel Palazzo Ducale di Urbino, quel turrito castello delle fate che Baldassare Castiglione definì «il più bello che in tutta Italia si ritrovi», una mostra a cura di Vittorio Sgarbi, anche pro sindaco di Urbino, e di Elisabetta Soletti ricostruisce, in un contesto più ricco e variegato, il rapporto fra l’urbinate Raffaello e il suo grande amico e ispiratore: Baldassarre Castiglione, appunto, teorico della sprezzatura o suprema eleganza di chi sa stare al mondo, che nel Cortigiano, primo grande best-seller europeo amato e consultato pure da Elisabetta I e Carlo V, codificò la figura dell’uomo di corte ispiratore del principe e, insieme, ritrasse un mondo che già virava alla fine.
Il documento più eloquente della loro amicizia è la lettera che nel 1519 scrissero insieme (ma che solo Raffaello firmò)a papa Leone X sul recupero archeologico di Roma, spogliata dei marmi classici per farne palazzi. Di quella epistola il fine diplomatico Castiglione fu insomma il «ghost writer», con Raffaello star in primo piano: miracoloso, affascinante, raffinatissimo, un giovane favoloso, come suggerisce il titolo di un libro di Costantino D’Orazio, che nella gloria della fama romana non dimenticò mai gli insegnamenti dell’amico. E al quale dedicò uno tra i ritratti più belli che mai dipinse, in queste settimane esposto nella mostra alle Scuderie del Quirinale e rappresentato a Urbino da una copia.
Qui, nella Sala del Castellare, gli occhi di chi vuole capire come si ragionasse a corte vengono catturati intanto da un interessantissimo quadro attribuito a Jacometto Veneziano, dove Fra Luca Pacioli illustra le teorie euclidee al duca giovinetto Guidubaldo da Montefeltro, e dove un enigmatico rombicubottaedro di cristallo riflette il palazzo di Urbino. Due Tiziani, il ritratto del Bembo di Capodimonte(ma secondo una recente attribuzione si tratta di Giovanni Grimani, patriarca di Aquileia) e quello di Giulio Romano e due piccoli mirabili disegni di Raffaello soddisfano il visitatore in cerca del nome altisonante, insieme con il gustoso dipinto di Pedro Berruguete che raffigura l’esangue ragazzino Guidubaldo, con un incongruo bastone del comando, accanto al ben più energico padre Federico, con quel profilo da rapace che Piero della Francesca tanto bene ha tramandato. Il senso più profondo della mostra, tuttavia, sta nelle stanze seguenti, dove tra armature, costumi, monete e oggetti di collezione viene ricostruita la Weltanschauung del cortigiano, eccellente nel mestiere delle armi, nella danza e nella caccia, e appassionato fino alla manìa alla raccolta di oggetti magnifici e rari, da godere in solitudine, senza farne menzione ad alcuno.
Tutto trova il suo culmine nella sala dei manoscritti e dei libri, con alcune preziose edizioni del Cortigiano, che dalla pubblicazione a Venezia nel 1528 conobbe in un secolo 60 versioni all’estero, con il manoscritto che Castiglione inviò dalla Spagna e su cui si basò l’edizione a stampa e con pezzi mirabili provenienti dalla sua biblioteca, fra cui una preziosissima Bibbia, la prima poliglotta, in ebraico, caldeo, latino e greco.
La cocuratrice Elisabetta Soletti, a lungo docente di Storia della Lingua Italiana a Torino, racconta di aver seguito metodologicamente il filo del confronto fra il testo del Cortigiano e le 1800 lettere del suo autore, da tre anni in edizione critica, e idealmente l’intuizione del «ritrarre per parole», cioè della consistenza visiva e quasi materica della prosa di Baldassare, «stesa per linee e colori come sulla tela del pittore», scrive Soletti, e dunque per sempre intrecciata, come in un sinestesia fra anime gemelle, all’arte di Raffaello. «Ma l’aspetto unico e singolare della riflessione di Castiglione - prosegue la studiosa - si manifesta non solo nelle forme dello specifico linguaggio tecnico della pittura, ma nella sua estensione metaforica finalizzata a descrivere altre realtà, siano esse politiche o culturali, di costume o di lingua. Ogni momento della vita pubblica e mondana del perfetto uomo di corte, l’esercizio della musica, della danza, del cavalcare deve essere guidato infatti dalla grazia e dalla moderazione, ma soprattutto l’arte del parlare deve essere misurata sulla regola aurea della sprezzatura, "il vero fonte ove deriva la gratia"». L’immersione in questo universo cortese di fragile perfezione è possibile fino al 1° novembre, con la frequenza imposta di 15 visitatori ogni mezz’ora e la possibilità di integrare il biglietto con quello della Galleria Nazionale delle Marche.