Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2020
Su “Il metodo” di Sergej M. Ejzenštejn
La traduzione italiana del primo volume de Il metodo di Sergej M. Ejzenštejn completa il lungo lavoro sulle opere scelte del grande cineasta e teorico sovietico portato avanti da quasi quarant’anni dall’editore Marsilio per la cura di Pietro Montani. Ma come si addice alla scrittura e al pensiero di Ejzenštejn, Il metodo non chiude nessun cerchio, anzi ne apre in continuazione confermando la natura cellulare di una teoria e di una pratica artistica che non conosce simili nel Novecento.
Ultima opera teorica di Ejzenštejn, rimasta incompiuta per la morte avvenuta nel 1948, Il metodo, a dispetto del titolo, è un libro di “crisi”, che da una lato scaturisce dall’insoddisfazione del suo autore rispetto all’indebolimento dell’avanguardia, all’imposizione delle modalità di rappresentazione realista e all’inasprirsi del clima censorio in Unione Sovietica, dall’altro lato si alimenta delle nuove suggestioni maturate nei tre anni di viaggi tra Europa, Stati Uniti e soprattutto Messico e fa tesoro delle letture in ambito antropologico, mistico e psicologico.
Si tratta di un libro dal montaggio molto complesso, dove al cinema, che resta l’ambiente e l’idea artistica entro cui Ejzenštejn si muove, si collegano sempre più “inquadrature” provenienti da altri ambiti, dalla letteratura al teatro, dalla poesia alla danza, dalla musica alla grafica, dalla pittura alla scultura fino al circo. Ejzenštejn è in cerca del problema fondamentale (Grundproblem) dell’arte e della sua efficacia presso gli esseri umani, è in cerca della ragione naturale e sensuosa che spieghi l’irrinunciabile tensione dell’uomo a vivere un tempo diverso negli spazi delle arti, una ragione per cui può accadere che La corazzata Potëmkin si ritrovi a funzionare come le fughe di Bach, le colonne dei templi di Paestum, i montoni di pietra egiziani, o le interminabili successioni di antiche lapidi nelle pianure della Mongolia.
L’intero magistero ejzenštejniano – incomprensibile se non si tengono costantemente in dialogo la vita dell’artista, le sue opere cinematografiche e la sua febbrile scrittura – tende ad una sintesi delle forme artistiche che trova nel mezzo cinematografico il banco di prova più moderno e tecnologicamente avanzato quanto ad azione estetica, un’azione che Ejzenštejn non disgiunge mai dalla Storia, dalla politica, dall’antropologia e nemmeno da fisiologia e psicologia. L’immagine cinematografica è elemento vitale, che replica nella sua composizione e articolazione attraverso il montaggio; quello che si potrebbe descrivere come un incontro tra l’organismo vivente e il suo ambiente, su cui Ejzenštejn insiste per ripensare la storia delle arti alla luce di una relazione biologica tra l’umano e le forme artistiche.
La ricerca del Metodo insegue una «natura complessiva», come la chiama il suo autore, che sappia tenere insieme l’umano e l’estetico, immemorabilmente presenti l’uno all’altro nella forma di «un’unità indivisa», dove «oggettivo e soggettivo, spaziale e temporale, traslato e letterale sono fusi insieme». Torna alla mente un passo “messicano” contenuto nelle Memorie del maestro sovietico (un libro per certi versi gemello di questo), in cui l’essenza della grafica, la sua pulizia di idee e coscienza, viene ricondotta al residuo primordiale del sangue, del corpo e della natura: «Mi inebria l’asciutto ascetismo della grafica, la precisione del disegno, la torturante spietatezza della linea strappata con il sangue al corpo multicolore della natura. Mi sembra che la grafica sia nata dalle immagini delle corde con le quali sono legati i corpi dei martiri, dalle tracce che lasciano i colpi di flagello sulla superficie bianca del corpo, dalla lama fischiante della spada prima che tocchi il collo del condannato». Ecco cosa “ripulisce” la struttura della forma e cosa pure trattiene in sé, cosa cauterizza la linea e cosa non smette di lasciar sanguinare, quali abissi sensibili e primordiali del nostro pensiero compone e rilascia, quale sopravvivenza del pensiero sensibile e prelogico riporta nei pressi della nostra coscienza.
In questo processo di regressione verso un tempo primitivo che l’arte sa riattivare, verso il fluire di un pensiero che non è ancora o non è più articolato secondo una costruzione logica (illuminanti da questa prospettiva le riflessioni sul «monologo interiore» in rapporto al cosiddetto «cinema intellettuale»), Ejzenštejn lavora sulla forma come residuo, come resto, senza spodestarla dal ruolo centrale che svolge nel suo universo teorico. L’opera d’arte rimane per lui un oggetto capace di produrre ed esibire una curiosa «bi-unità», che reca in sé le tracce di un doppio processo, caratterizzato da «un’impetuosa ascensione progressiva verso i gradini più alti delle idee e della coscienza, e contemporaneamente la penetrazione, attraverso la struttura della forma, negli strati del pensiero sensibile più profondo».
Da qui, Il metodo si presenta per il suo autore come l’occasione di ripercorrere, a ritroso, alcune delle riflessioni più rilevanti della sua teoria, inquadrandole entro un più ampio sistema di riferimenti artistici, estetici e antropologici e di ricercare negli stadi più profondi dello sviluppo biologico e organico un’archeologia delle forme estetiche che torna al movimento, al ritmo, alla ripetizione, al respiro e al soffio vitale propri della vita biologica degli organismi.
Come nota Alessia Cervini – cui si deve il prezioso lavoro di curatela e il testo introduttivo che contestualizza e sistematizza un’opera espansa, difficile da imbrigliare – Ejzenštejn anticipa con questi saggi le migliori ricerche contemporanee sulla naturalizzazione dell’esperienza estetica, considerando l’arte «come uno di quei comportamenti (al pari dell’uso del linguaggio e di altre tecniche) attraverso cui osservare il processo che, in termini evolutivi, si definisce di “ominazione”», un comportamento il cui studio può aiutare a comprendere «la relazione fra la specie umana e le altre specie viventi, animali e vegetali».
Se Cervini osserva che Il metodo oggi può parlare a due delle maggiori tendenze di studio nel campo delle arti e cioè agli studi di cultura visuale e a quelli di neuroscienze cognitive applicate alle forme artistiche, si rafforza altresì l’idea che proprio questo libro confermi la sorprendente attualità di Ejzenštejn, che del cinema ha saputo indagare, per usare le parole di Roberto De Gaetano, la «specificità a-specifica», che costringe, per restare dentro il cinema, a premere costantemente sui suoi confini, fino a ritrovarsene sostanzialmente fuori. È questo che fa del Metodo un libro non più solo di cinema, quanto essenzialmente una lezione di libertà espressiva che rimane forte e coraggiosa come lo era negli anni in cui Ejzenštejn la andava costruendo.