Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2020
Ammaestrati dall’unicorno
Per l’homo technologicus dei nostri tempi, la natura e il cosmo sono depositi di risorse, di idee, di materie prime e di modelli ingegneristici da cui egli si sforza di trarre dati utili a sviluppare la propria sopravvivenza fisica, il proprio benessere materiale o magari la propria connettività, considerati come obiettivi prioritari della specie. Ci sono pochi elementi per considerare una visione della natura che punta soprattutto al suo sfruttamento o al suo contenimento come superiore o più evoluta rispetto a un’altra, che oggi tendiamo d’istinto a considerare ingenua e puerile (cioè tale quale la nostra probabilmente apparirà agli uomini del futuro, se ne saranno). Leggendo il Libro della natura degli animali, cioè il più famoso dei bestiari prodotti dalla letteratura italiana del Duecento, e ora ripubblicato in un’impegnativa edizione critica dal filologo romanzo Davide Checchi, ci si può fare un’idea di quale fosse il concetto della natura più presente nella cultura del basso Medioevo.
All’uomo di quel tempo, o almeno a quello colto, la natura appariva evidentemente come un grandioso libro di ammonizioni e di modelli o antimodelli morali. Era un giacimento multiforme d’esempi cui conformare le condotte umane, e di viventi diffide congegnato da un Creatore ben presente per raccontare e illustrare agli uomini la via verso la salvezza attraverso l’esercizio di virtù che potremmo chiamare prudenza, giustizia, fortezza, temperanza oppure, per renderle meno lontane dal nostro modo di pensare, autocontrollo, rispetto per gli altri, lungimiranza, sobrietà, eccetera. Secondo uno schema non poi così lontano da una forma mentis anche nostra, l’ape e la sua organizzazione sociale divengono così un esempio di quella che oggi chiameremmo moderazione e non-violenza: «questa est figura che alcuno signore non dé ferire di sua mano, né di ferro, né di bastone, né di neun’altra cosa, ma sì dé gastigare e amonire li suoi sudditi di savie parole e dé punire con ordinata giustisia». La buona stampa di cui gode quest’insetto sembra resistere strenuamente al trascorrere dei secoli, mentre stupirà qualche lettore moderno scoprire la caratterizzazione almeno in parte negativa riservata a un animale oggi incondizionatamente amato come il cane (che «àve in sé una laidissima natura»).
Il testo offerto in questa edizione è il frutto di una minuziosa analisi volta soprattutto a uno scopo: quello di ricostruire, attraverso un puntuale confronto testuale e una rete di sottili deduzioni, i rapporti che legano tra loro i manoscritti della vasta costellazione di bestiari circolanti in Europa, e segnatamente in Italia, fra Due e Trecento. Si trattava di un genere di testi nato e sviluppatosi originariamente in ambiente universitario – dove simili libri erano concepiti come introduzioni filosofiche alla conoscenza della natura – ma destinato a grande fortuna anche nell’ambito della predicazione, che è la forma d’istruzione diffusa più tipica del Medioevo.
I due approcci più caratteristici di questo tipo di testi, entrambi rappresentati nel Libro della natura degli animali, erano in effetti ben adattabili all’ammaestramento dai pulpiti delle chiese. Il primo consisteva nel descrivere il comportamento tipico di un animale e nell’interpretarlo come immagine o metafora di una particolare condotta umana, positiva o negativa. Si tratta della formula basata sulla cosiddetta moralizzazione delle nature, cioè dei tratti tipici, degli elementi caratteristici in un senso che diremmo etologico. Interessavano qui i componenti di una fauna sia comune e quotidiana (la formica, il ragno, la rondine o il toro), sia semifavolosa perché remota dall’esperienza usuale (il leone, la balena, lo struzzo), sia francamente fantastica (la fenice, la sirena, l’unicorno: ma come è ovvio lo statuto di realtà dei figuranti non era oggetto di puntuale interesse).
La seconda formula tipica è quella della favoletta: l’apologo incentrato su un singolo essere vivente – che può essere anche un vegetale: D’uno arbole ’di un albero’ s’intitola una delle storielle di questo libro – che racchiude ancora una volta un ammaestramento morale. È un modello già ben rodato dagli autori antichi di favole, e intramontabile nella sua efficacia. Esempio: «Quando la rana vidde lo buoe grasso giacere, desiderava d’essere cusì grande come lo bue, e fessi enfiare, e disse ai figliuoli suoi: “Tenete mente se io sono cusì grande come ’l bue”. Disseno che no. Allora s’enfiò altra volta più e disse loro: “E aguale sono cusì grande come lo bue?” Disseno: “No”. Poi s’enfiò molto et tanto che la pelle sua si ruppe, e crepò».
In comune con certe visioni del cosmo più vicine nel tempo, un’opera simile ha di non considerare affatto la possibilità di un punto di vista della natura che sia autonomo e distinto da quello degli uomini, o non puramente funzionale alla loro edificazione (morale ieri, forse semplicemente immobiliare oggi). Ma può essere interessante osservare come il punto di vista divino, sempre presente nell’economia narrativa del bestiario, fornisca di fatto una prospettiva terza ed estranea sia a quella umana, sia a quella animale: assieme al punto di vista del Diavolo – stabilmente rappresentato nella sezione morale del testo – esso conferisce all’uomo una posizione almeno in parte passiva e subordinata che di fatto funge da antidoto a qualsiasi forma di hybris. Se l’animale, insomma, è al servizio dell’insegnamento, l’uomo appare in fondo al servizio di un disegno di salvezza o perdizione ben più grande di lui.
Molte delle nature raccontate in questo libro sono, occorre dirlo, divertenti da leggere, e anche facilmente accessibili a un lettore colto moderno, se il toscano francamente occidentale in cui è scritto il testo scelto come base per l’edizione può contare su uno scarto contenuto rispetto alla lingua in cui scriviamo e parliamo. Ciò che rende la lettura spesso più facile e scorrevole di quella d’un trattato di zoologia: «Turtula è uno ucello lo quale molto ama lo marito suo, imperciò che castamente vive con lui e bene li serba la fede, e anco inperciò che, quando lo marito è morto o d’alcuno pigliato, senpre l’aspecta, e giamai no si congiunge con alcuno maschio, ma con grande desidero l’aspecta, né non si pone in ramo verde, né non bee in acqua chiara, e cusì persevera fine ala fine».