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 2020  agosto 02 Domenica calendario

Le acutezze d’ingegno di Baltasar Gracián

Predicatore a Madrid e a Valencia, cappellano alla battaglia di Lérida, professore di Sacra Scrittura a Saragozza, mente raffinata, gesuita che ricorre anche a pseudonimi per non essere giudicato mondano: queste e numerose altre sono le caratteristiche di Baltasar Gracián y Morales (1601-1658). Autore amato da Schopenhauer e Nietzsche, è uno dei più volpini moralisti del mondo barocco.
Nel leggerlo si avverte l’eccezionale conoscenza delle regole politiche oltre che delle strategie spirituali. Per esempio, sfogliando il suo Oracolo manuale e arte della prudenza si è colpiti quando consiglia, dinanzi alla stupidità, di giocare le carte al momento giusto, notando che vi sono situazioni in cui l’astuzia migliore consiste nell’apparire ottuso. Attenzione, ammonisce, non bisogna esserlo; tuttavia a volte è necessario sembrare tale, perché poco si fa mostrandosi saggio tra i folli o savio tra i lunatici. Simulare, mentire, mai rivelarsi: mezzi leciti per il risultato. E ancora: «Saper cedere a tempo vuol dir molto: chi raggiunge il suo scopo non perde mai la reputazione».
L’Oracolo è del 1647; l’anno successivo Gracián pubblica L’acutezza e l’arte dell’ingegno, che in forma ridotta era uscita sei anni prima. In tal caso il moralista, che ha appena sussurrato ai politici – nel Seicento ve ne sono di formidabili – si fa da parte e insegue, tra l’altro, la “bellezza strategica”. Si pone quesiti sull’ingegno, sull’arte della sottigliezza, sull’accoglienza del concetto.
Tali note nascono perché è tornata disponibile la traduzione italiana dell’Agudeza realizzata da Giulia Poggi, con l’attenta presentazione di Mario Perniola, che vide la luce nel 1986. In quel periodo era in corso una rivalutazione di Gracián e l’opera in questione, considerata per lungo tempo un’antologia di preziosità secentesche (Benedetto Croce), fu accusata di ridurre la poesia a un gelido nulla laborioso, o meglio a un erbario di arguzie (Borges). La teoria estetica della scrittura di Gracián, argomento appunto de L’acutezza e l’arte dell’ingegno, soffriva ancora in pieno Novecento dell’ironico giudizio di Voltaire: l’aveva definita «Stile di Arlecchino».
Perniola ricorda come la rivalutazione dell’Agudeza fosse anticipata dal grande Ernst R. Curtius che ne mostrò le fonti antiche, o da Miguel Batllori che pose in evidenza il rapporto con la Ratio Studiorum dei gesuiti. Del resto, uno specialista di letteratura spagnola quale Antonio García Berrio ha fatto conoscere i rapporti che corrono tra le pagine in cui Gracián insegue l’acutezza e le loro fonti italiane. Se Platone nel Liside sostenne che il bello è simile a ciò che è levigato, dolce, lucido (Edmund Burke, il Cicerone britannico, lo ripeterà in pieno XVIII secolo), il gesuita spagnolo sosterrà che l’agudeza è una bellezza appuntita, piccante, simile al ferro con cui si taglia o trafigge. Per questo essa abita all’interno di uno spazio semantico in cui la parola, il gesto e financo il silenzio diventano armi, mentre il letterato si fa combattente.
Sfogliando il libro di Gracián si comprende ben presto che uno dei suoi eroi poetici è Luis de Góngora, anche se ci s’imbatte in un inchino a Giovanni Botero, un sorriso a Francisco López de Zárate (“Il poeta della rosa”), un prestito dall’ Andria di Terenzio, un cenno agli Epigrammi di Marziale. Il gesuita mai dimentica la sua vocazione e insegue le idee politiche come un cane da fiuto. Per questo, parlando dei giudizi critici, rammenta una massima del condottiero portoghese Pablo de Parada, da lui ascoltata: «Sciocchi sono tutti quelli che lo sembrano, più una buona metà degli altri».