Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2020
India, Tibet e Cina, le patrie di Tucci
Raramente è dato, anche storicamente, incontrare una personalità così poliedrica, come quella di Giuseppe Tucci, che riunisca in sé talenti tanto profondi e diversi tra loro. Perché fu uomo di sconfinate conoscenze, dominando tutte le principali culture e religioni dell’Estremo Oriente, tra cui quelle dell’India, Cina e Tibet, le rispettive lingue, compresi i molti dialetti, avendo egli anzitutto una profonda cultura classica. Fu inoltre archeologo, viaggiatore, anzi esploratore di nuovi mondi, antichi e contemporanei. E poté essere tutte queste cose insieme per il grande talento pratico con cui costruì, un pezzo dietro l’altro, il complesso e accidentato percorso della sua vita. Spesso questo genere di personalità muovono il loro insieme di strumenti di pensiero e azione motivati da una convinzione di fondo. La sua biografia, molto accurata, pubblicata da Alice Crisanti, la pone in quell’idea dell’“intima unità del genere umano”, che impronta la sua produzione intellettuale di orientalista, volta ad approfondire il tema dell’Euroasia.
Qual è in questo caso, l’intima unità? Perché le diversità sono anche profonde, soprattutto con le culture e religioni dell’Asia, a differenza di quelle del Medio Oriente, in cui fin dall’età classica vi sono radici comuni e influenze profonde, sia greco-romane, sia giudaiche, basti pensare al cristianesimo e all’islamismo. Le relazioni dell’Occidente con i Paesi dell’Asia sono molte, a partire dal XVI secolo, e prendono infine la forma del colonialismo europeo, consolidatosi nel XIX secolo. Rapporti questi ultimi che nel secolo scorso, in termini di potenza, si sono rovesciati con la formazione delle potenze asiatiche, che a loro volta tendono a espandersi con forza. La storia personale di Tucci si svolge proprio nel periodo, dopo la Prima guerra mondiale, in cui questo capovolgimento di prospettiva inizia la sua strada. Tucci può dirsi diviso a metà, perché da un lato fu protagonista di quella che è stata la politica di affermazione del prestigio nazionale italiano, condotta dal fascismo in quei Paesi, dall’altro fu invece proteso alla ricerca sia delle consonanze, sia delle dissonanze, non solo storiche, ma filosofiche e religiose con l’Oriente, il che costituisce il vero lascito della sua vastissima opera.
Quest’ultima tuttavia basterebbe da sola per provare come non fosse stato mai propriamente fascista, e con quella ideologia non avesse avuto alcuna affinità, salvo un’inclinazione nazional-conservatrice che connota anche la sua formazione intellettuale, per il legame profondo che ebbe con Giovanni Gentile, attratto dalla solidità e vastità della cultura di questi animata, com’era, da un vivo interesse per il mondo orientale. Il segno più vistoso del rapporto di Tucci col fascismo fu la fondazione dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente (Ismeo), di cui, negli anni Trenta, fu il direttore, con Gentile presidente. Ebbe per questo anche rapporti diretti con Mussolini, perché l’Ismeo voleva essere strumento di penetrazione italiana in Cina e India. E rispetto a quest’ultima, naturalmente la rivalità antibritannica era un ingrediente scontato. A Tucci interessavano soprattutto i rapporti culturali, come mostra il caso del grande poeta Tagore, che venne in Italia e lo invitò in India, ma per parte sua si pose in contrasto col fascismo. Quando poi le sue esplorazioni si sarebbero concentrate sul Tibet, Tucci ebbe necessità di cospicui finanziamenti. Ma questi vennero all’Ismeo veramente copiosi solo in un secondo momento, con l’intensificarsi dell’attività dell’Istituto verso il Giappone, determinata dai rapporti politici che erano in corso. Tuttavia, il contributo di Tucci si distinse, concentrando la maggior parte dei suoi numerosi scritti sulla storia culturale di quel Paese, in cui avrebbe anche soggiornato sulla fine del 1936.
Questa fu la sostanza del rapporto col fascismo di Tucci, il quale come si è detto aveva molto senso pratico, ma anche una sostanziale mancanza di interesse per la politica, come egli stesso doveva dichiarare in una pagina autobiografica. Ciò non toglie che c’era materia perché finisse sotto procedura di epurazione, così come altrettanto evidenti appaiono le ragioni per cui venne poi reintegrato nell’insegnamento e nell’attività dell’Ismeo, riprendendo le sue ricerche in Tibet e Nepal.
Tucci raccolse nei suoi viaggi una collezione orientale di statue e altri ornamenti, oltre a un vasto e prezioso patrimonio di libri e manoscritti, che dopo lo scioglimento dell’Ismeo, nel 2012, si custodiscono rispettivamente nel Museo delle civiltà e nella Biblioteca Nazionale di Roma. Un lascito notevole, corredo materiale della sua attività intellettuale, la cui formazione risale al primo viaggio in India negli anni Venti. Aveva respinto con un articolo, A proposito dei rapporti tra cristianesimo e buddismo, il metodo comparativo, sottolineando come le religioni abbiano modalità diverse per determinare la loro continuità, ma che la loro conoscenza dipende dall’analisi storico-filologica, che rimane il solo metodo disponibile per un intendimento critico. Fu con questo spirito che andò alla ricerca dei testi della più antica tradizione manoscritta, sostando in più luoghi, dall’India al Tibet e al Nepal, sondando anche i monasteri e praticando quella, che può definirsi una “osservazione partecipante”. Rimarcava come la diversità dei Paesi dell’Estremo Oriente andasse approfondita non con il solo studio, ma attraverso un rapporto diretto con la loro intrinseca vitalità e il diverso modo di vivere, da cui bisognava sgomberare quanto ancora si immaginava di favoloso, oppure pregiudizialmente si respingeva, e intitolava un suo primo lavoro, Linee di una storia del materialismo indiano.
Aveva esordito all’università come professore di lingua e letteratura cinese. Ed anche alla Cina, a partire dal V sec. a.C., in particolare sulla disputa filosofica tra confucianesimo e taoismo, dedicò molti studi, ma possiamo dire che la tensione maggiore della sua ricerca si concentrasse sul buddismo. Sondò anche la cultura religiosa antecedente e la parabola del magistero buddista, il suo declino in India e affermazione in Tibet e le diverse forme assunte in altri Paesi asiatici. Uno dei suoi lavori più importanti, che avrebbe avuto anche grande risonanza internazionale, uscì nel 1949, col titolo Tibetan Painted Scroll. E appunto in esso che trovano risposta gli interrogativi che lui stesso si era posto sulla più “intima unità” tra Paesi diversi, spesso molto lontana dalle apparenze. L’unità del mondo contemporaneo gli risultava essere ormai un dato di fatto, e come fossero proprio le diversità a dover essere indagate, lungo una continuità storica plurisecolare. E ciò per avere anche una nozione sufficientemente chiara dei nuovi mutamenti che si andavano determinando e avrebbero cambiato profondamente l’avvenire, un’intuizione già interamente presente nell’opera di Tucci.
E questo tornare molto più indietro nel tempo è problema di conoscenza che oggi avvertiamo, sempre più costantemente, dinnanzi ai molti interrogativi che si pongono, e sappiamo non avere risposte soddisfacenti che vengano soltanto dagli avvenimenti più recenti. E l’opera di Tucci, anche in ciò, ha lasciato un insegnamento profondo che si è trasmesso fino a oggi.