Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2020
A tavola con il neuroscienziato Stefano Mancuso
«Lei sa qual è la cifra di fondi pubblici che il mio laboratorio riceve dallo Stato italiano per la ricerca? Milleottocento euro all’anno. Sa quanti, fra i miei collaboratori all’università, alla fine hanno ottenuto una posizione strutturata in Italia? C’è riuscita una persona. All’estero, invece, non meno di sessanta miei allievi hanno posizioni accademiche stabili. Oggi sembrano tutti ebbri di gioia per la possibilità che ha il nostro Paese di fare nuovo debito grazie all’ultimo accordo europeo. Non entro nel merito della politica nazionale e comunitaria. Sicuramente è andata nel migliore dei modi possibili. Parlo però di quello che conosco. E, dunque, dico che sarebbe il caso che iniziassimo a osservare bene come funziona la nostra università. Perché, ormai, formiamo giovani scienziati di livello internazionale e li condanniamo, in Italia, al precariato, alla povertà e alle umiliazioni. Io ho i sensi di colpa quando penso ai miei borsisti. Loro lo sanno. Se, dopo il dottorato di ricerca, vogliono la stabilità in Italia, è meglio che lascino il mio gruppo per passare con un barone universitario. Così, magari, a quarant’anni approderanno a un incarico non temporaneo. Se, invece, vogliono proprio lavorare con me, per avere un futuro, a un certo punto, devono andare all’estero. E non li biasimo. Ricordo ancora quando trent’anni fa, durante il mio dottorato di ricerca qui a Firenze, mi chiamarono da Harvard: prendevo seicentomila lire al mese, là mi offrivano settemila dollari al mese».
Stefano Mancuso ha scoperto – e ha dimostrato, conferendo il sigillo della prova scientifica alle intuizioni degli scienziati e alle suggestioni degli scrittori – che le piante sono intelligenti: «Abbiamo costruito una realtà immaginaria in cui l’uomo è al centro di tutto. Organizziamo così i valori mentali e culturali. Definiamo in questo modo le gerarchie. Non pensiamo mai agli squilibri che la nostra civiltà provoca. Non consideriamo gli altri esseri viventi. Trascuriamo le piante, che sono l’85% della biomassa della Terra. E non capiamo che, con la loro organizzazione diffusa, l’assenza di centri propulsori prevalenti sugli altri e una morfologia cooperativa e di grande adattabilità, ci dicono molto anche della nostra ultima modernità. Oggi il mondo è incentrato sulle reti e propende verso le organizzazioni piatte e orizzontali. Esattamente come fanno le piante. Internet, in fondo, imita un organismo vegetale».
Mancuso, classe 1965, è figlio di un generale dell’esercito, Franco, e di una insegnante delle elementari, Rina. «Sono cresciuto a Catanzaro. A quindici anni, ogni estate dopo la fine della scuola io e i miei amici prendevamo il pullman fino a Soverato. Partivamo da lì. Da soli, con lo zaino in spalla, camminavamo lungo il mare per dieci giorni. La notte dormivamo nei sacchi a pelo. Non piantavamo nemmeno la tenda. La Calabria aveva ottocento chilometri di coste selvagge. Mi piaceva stare con gli amici, in mezzo alla natura».
Quarant’anni dopo quelle escursioni, i suoi esperimenti stanno esprimendo una crescente influenza sulla scienza, sulla filosofia e sulla filosofia della scienza.
Mancuso, ordinario di arboricoltura generale e coltivazioni arboree all’università di Firenze, dirige il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale, conosciuto con l’acronimo di LINV, dove operano sedici studiosi. Sotto al patio di questo laboratorio, in una Sesto Fiorentino in cui la campagna toscana è punteggiata da fabbriche e capannoni industriali, i ricercatori ci raggiungono per mangiare tutti insieme.
La giornata di fine luglio è calda e un poco afosa. Per fortuna che, ogni tanto, arriva un colpo d’aria fresca. Il cielo è coperto. Minaccia pioggia. «Prof, secondo me riusciamo a mangiare, le previsioni danno acquazzone non prima delle tre del pomeriggio», dice una sua collaboratrice. Prendiamo le sedie dal laboratorio e le portiamo intorno a un tavolo di pietra. Dagli zaini tutti tirano fuori panini e insalate, lattine di birra e bibite.
Il lavoro di Mancuso sta modificando la visione generale del mondo. Lo sta facendo al di là delle singole discipline. Questo perché la scoperta che le piante possono sviluppare un pensiero organizzato e cooperativo e riescono a risolvere questioni complesse mette in crisi il pensiero gerarchico che – anche in maniera inconscia e inconsapevole – ha nell’uomo il cardine di ogni cosa.
Poco prima di raggiungere i ricercatori del LINV per mangiare, nel suo studio al primo piano, Mancuso mi aveva mostrato il video del suo principale esperimento, che si è svolto l’anno scorso. Per saggiare l’intelligenza di un animale – per esempio un topolino – lo si mette in un labirinto e si verifica quanto tempo impiega a raggiungere del formaggio. Mancuso ha creato un labirinto, vi ha posto al suo estremo del nitrato di ammonio e ha piantato vicino al suo “ingresso” un seme di mais. Sull’estremo della radice del mais, si trova un apice che è una sorta di centro di comando: si chiama “zona di transizione” ed è animata da attività elettrica, in analogia – o almeno in similitudine – a quanto accade nei neuroni degli animali. Questa caratteristica appartiene a tutte le piante. Il comportamento del mais – nell’accelerazione delle immagini in quattro minuti, per un processo che con i tempi della natura dura quattro giorni – è impressionante: la radice della pianta inizia a muoversi e, quando entra nel labirinto, svolta sempre al momento opportuno – a differenza di un topolino che prova, riprova e non poche volta cade in errore – e alla fine raggiunge il suo cibo, il nitrato di ammonio. Pochi minuti prima di radunarci nel patio con tutti gli altri per il pranzo, guardavo sul suo computer questo video e sentivo le sue spiegazioni: un rumore fortissimo, proveniente dall’esterno, ci aveva interrotto più volte. «È una sbarra di ingresso», aveva detto lui, quasi imbarazzato.
Mentre adesso tiriamo fuori i panini (lui ne ha due con pomodoro, mozzarella e basilico, io invece ho una brioche salata con prosciutto crudo e pecorino romano), mi torna in mente quel rumore sordo, che simbolicamente nulla aveva a che vedere con un luogo di ricerca e di formazione. E gli chiedo perché rimanga in Italia. Princeton, Harvard, Stanford e Berkeley. Ognuna con le sue caratteristiche. Tutte con proposte molto simili: un budget per la ricerca da una cinquantina di milioni di dollari, uno stipendio non inferiore al milione di dollari all’anno e una quota di almeno il 10% sui nuovi fondi di ricerca portati all’università dal professore che ha la leadership del programma. Non poco, per usare un eufemismo, per un docente italiano che – stipendio da impiegato pubblico a parte – ha, appunto, una dotazione annua di milleottocento euro di fondi nazionali per il LINV, che funziona grazie al milione di euro trovato ogni anno da lui attraverso i fondi europei e gli stanziamenti delle fondazioni italiane e straniere. «Perché non accetto le proposte delle università americane? – dice scartando il secondo panino con mozzarella e pomodoro –. Perché là non esiste la vita sociale, nella concezione che abbiano noi italiani. Nessuno va a cena e al cinema, prende il caffè e chiacchiera amabilmente con gli altri per il solo piacere di farlo. Non è, però, soltanto un problema di stile di vita. Il tema è come lo stile di vita e la mentalità professionale possano alla fine condizionare i risultati della ricerca. In un ambiente ultracompetitivo, votato alla misurazione di ogni performance e incentrato sui casi di studio, non avrei avuto il tempo e la serenità che mi hanno permesso di coltivare e sviluppare molte delle mie idee. Magari, di fronte a mezzi finanziari e tecnologici incomparabili ai nostri e in un sistema così votato alla produttività scientifica e al risultato di laboratorio, me ne sarebbero venute altre. Ma, credo, non quelle intorno a cui lavoro da una vita». E, per spiegare meglio la differenza fra i due mondi, riporta le parole di un suo collega e amico, che gli sottolineava la caratteristica di Princeton: «In un’ora, alla caffetteria, potresti parlare con quattro o cinque persone che, di fronte a una tua idea, ti potrebbero dire se è buona e cattiva. E, se è buona, quale tipo di esperimento sarebbe più utile. Nell’ora successiva, potresti organizzare l’esperimento da fare il giorno dopo».
Qui non siamo alla caffetteria di Princeton, siamo in una mensa improvvisata – e con un clima divertente se non gioioso – a Sesto Fiorentino. I giovani collaboratori di Mancuso hanno tutti un curriculum ben strutturato, dal PhD in avanti, in diversi casi con anni trascorsi all’estero, spesso nelle quattro sedi che il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale ha nelle università di Pechino, Bonn, Parigi e Kitakyushu (in Giappone). Alla fine, affettiamo una crostata alla crema e alla frutta e beviamo tutti insieme il caffè della macchinetta. «Il meccanismo della pubblicazione dei paper, come chiave per imporsi nella ricerca accademica, è contrario al mio modus operandi. Se non ho qualcosa di nuovo da dire, preferisco non scrivere. Esiste una specificità culturale italiana, basata sulla intersezione fra i saperi e l’intuizione che deriva dal pensiero teorico. Per questa ragione i ragazzi che si formano nei nostri licei e nelle nostre università hanno caratteristiche preziose e originali. Anche se, davvero, milleottocento euro di fondi pubblici all’anno sono pochini», sorride con consapevole orgoglio, ma anche con ironia amara, Stefano Mancuso, lo scienziato delle piante e della loro intelligenza.