Corriere della Sera, 2 agosto 2020
Parla la madre dei gemelli uccisi dal padre
Nel salotto della casa di Daniela a Gessate ci sono, su un mobile, tanti giochi del Lego costruiti dai figli Diego e Elena. Sono case, aerei, automobili. In un angolo, vicino al televisore, fa bella mostra di sé una gigantesca astronave Apollo, costruita, sempre con il Lego, da Diego. La prima cosa che mi viene da pensare è quanto deve essere stato contento quel bambino nel momento in cui avrà completato quello sforzo immane di pazienza e di abilità.
ella vetrina che custodisce i bicchieri compare invece una scritta composta con delle lettere adesive: «Elena, Berta, semplicissimo». L’ha composta, nei giorni del lockdown, che in questo silenzio irreale sembrano il secolo scorso, la gemella di Diego, appunto Elena. «Semplicissimo» è il soprannome che il suo allenatore le aveva dato perché Elena quando era piccolina, per non essere da meno dei suoi compagni più grandi, diceva che ogni esercizio era «semplicissimo». È la parola stampata sulla maglietta che l’ha accompagnata nell’ultimo viaggio. «Berta» invece era il soprannome dato dalla sua allenatrice in quanto colonna sonora dell’esibizione di pattinaggio freestyle che Elena non è mai riuscita a portare in gara a causa del lockdown, ma che aveva preparato con tanto impegno.
Nella loro stanza, rimasta uguale al giorno in cui l’hanno lasciata, ci sono i segni di due mondi. Da una parte la foto di Dybala e delle frecce tricolori, i puzzle composti e incorniciati e dall’altra i giochi di una bambina che sta per diventare grande e sicuramente farà più in fretta di suo fratello. Perché le donne fanno tutto presto, meglio e si portano sempre, loro sì, il mondo sulle spalle.
Daniela, la donna che ho davanti a me, è come l’Atlante descritto da Omero: «Che del mar tutto i più riposti fondi /Conosce e regge le colonne immense/ Che la volta sopportano del cielo». Lei ha vissuto in una sola notte il più orribile, impensabile, disumano dei dolori immaginabili. Un dolore di quelli che aprono il cuore e non sanno più rimetterlo a posto. Un dolore impossibile. I tuoi due figli uccisi a mani nude dal padre, l’uomo con cui hai condiviso venti anni della tua vita, che li ammazza per punirti. Cosa di più insopportabile?
Daniela convive da un mese con questo baratro, ma reagisce. Senza odio. «È inutile, veleno inutile, ormai». Con tanta rabbia, certo. Con la mente piena di momenti in cui forse si poteva fare altro, ma forse no. Con i dubbi che ti succhiano i minuti e ti spettinano le certezze. Con l’amore degli altri, la sua famiglia, gli amici, la sindaca e la comunità di questo piccolo e tranquillo paese di neanche novemila abitanti alle porte della grande Milano.
Mi ha molto colpito leggere la lettera che Daniela ha scritto il giorno dei funerali dei suoi ragazzi. In un mondo reso livido dall’odio che tracima ovunque, mi è sembrato che quelle parole fossero come il primo fiore che spuntò ad Hiroshima, dopo la bomba.
«Ciao nanetti,
così vi ho sempre chiamato, anche se ormai eravate alti quasi quanto me.
Non riesco ancora a realizzare che non potrò più rivedervi, abbracciarvi, sentire la vostra voce o il suono delle vostre risate, ma soprattutto quell’intercalare “mamma” che sentivo nominare miliardi di volte al giorno e che ora non sentirò mai più.
La felicità è una scelta e voi avevate scelto di vivere sereni e felici nella vostra breve vita. Con due caratteri molto differenti, entrambi accumunati dal sorriso, da quello sguardo attento e dalla voglia di vivere e affrontare il mondo.
Elena un vulcano: portava allegria in ogni luogo. Diego riflessivo ed osservatore. Inutile dilungarmi oltre nel descrivervi ai vostri amici.
Non era sbagliato essere diversi: eravate due individui separati e sarebbe stato grave sforzarsi di essere uguali.
Sono stata fortunata a essere la vostra mamma: in questi 12 anni ci siamo accompagnati, coccolati, abbracciati, baciati, fatto tanto solletico, giocato, discusso, fatto sport diversi, studiato, viaggiato e mille altre cose; non importa se ho dormito poco e ho corso. Quando vi vedevo sorridere (senza che ve ne accorgeste) o mi dicevate di amarmi, per me era la felicità: e sono le piccole cose che rendono felici.
Non sono sicuramente stata una mamma perfetta, come voi non siete stati i figli perfetti, ma sono stata me stessa come voi siete stati voi stessi; voi perdutamente e profondamente innamorati della vita, io profondamente e perdutamente innamorata di voi.
Ho sempre cercato però di lasciarvi i vostri spazi per fare, sperimentare e sbagliare, liberi di scegliere, perché non è con la forza o l’imposizione che potevo trattenervi: il mio ruolo era di stare al vostro fianco, pronta a rialzarvi o consolarvi in caso di bisogno, oppure a gioire con voi.
Voi non avevate scelto di essere i miei figli, ma io avevo scelto di essere mamma: il destino ha deciso di regalarmi voi e sono stata una mamma privilegiata. So che da ora in poi voi sarete al mio fianco, come io lo sono stata per voi.
Il vostro sorriso mi porterà allegria e mi terrà compagnia nei momenti di paura e mi riscalderà il cuore.
Ho cercato di insegnarvi di cercare sempre il meglio negli altri, di mettere etica e passione in ogni vostro impegno (scuola o sport che fosse), di ridere spesso e con gusto, e di rispettare gli altri: stavate imparando a farlo bene, e se seguendo questi consigli avete contribuito ad un mondo un pochino migliore, credo di aver fatto un buon lavoro.
Per me sarebbe un successo sapere che quando tutte le persone che vi hanno conosciuto, mentre vi penseranno, sorrideranno, ed è per questo che chiedo a tutti di ricordarvi sorridendo e non nelle lacrime: Elena e Diego avrebbero preferito così.
Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci abbracci e ci dica che va tutto bene, anche quando non è così: anzi, soprattutto quando non è così. In questo ultimo saluto vi abbraccio e vi dico che andrà tutto bene, nonostante il male che vi è stato inferto.
Questa mostruosa esperienza mi sta insegnando che non importa quanto forti possiamo essere, tutti prima o poi abbiamo bisogno di un abbraccio. Nella mia vita ho scoperto che un sorriso ha il potere di cambiare il mondo, e che se vuoi qualcosa devi alzarti, impegnarti e affrontarlo. Soprattutto, sto imparando che nella vita non bisogna essere perfetti, ma felici, e bisogna accettare l’aiuto degli amici (e noi tre di amici ne avevamo tanti).
Purtroppo la vita è questa: niente è facile ma nulla è impossibile, e per questo finché saprò ancora emozionarmi sentendo il vostro nome («Elena e Diego»), saprò che questa enorme violenza e ingiustizia non ha vinto.
Mi mancherete tantissimissimo!
La vostra mamma Dani».
Di queste parole voglio parlare con la persona che le ha scritte. La donna che mi ha aperto le porte della sua casa è minuta, ha lunghi capelli castani e occhi profondi, che ogni tanto si perdono. Daniela conosce davvero sulla sua pelle la «cognizione del dolore». E ha bisogno di parlare, di raccontare. Le sue parole mi fanno venire in mente quelle che il mio poeta preferito, Giorgio Caproni, dedicò a un momento di dolore collettivo: «Resteremo in pochi. Raccatteremo le pietre/ e ricominceremo. A voi/ portare ora a finimento/ distruzione e abominio. Saremo Nuovi. Non saremo noi. Saremo altri e punto/ per punto riedificheremo/ il guasto che ora imputiamo a voi».
Ascoltiamo ora Daniela. Senza interromperla.
«Quella lettera l’ho scritta per metterla nella loro bara, perché facesse loro compagnia, li accompagnasse nel viaggio, nel buio e nel freddo.
Mario ha fatto quello che ha fatto per fare male a me. Ma ha tolto quelle sue creature ai loro amici, ai loro compagni, ai loro allenatori, al futuro che dovevano vivere. Io non voglio, non posso, ricordarli come li ho visti l’ultima volta. Voglio ricordarli con un sorriso, il loro sorriso.
Avevamo problemi da tempo, molto tempo. Ha fatto qualcosa di spaventoso. Che una persona uccida due bambini con le sue mani lo ritengo impensabile. Che lo faccia un padre con i suoi figli è disumano. Come si fa uccidere due creature, i tuoi figli, con le proprie mani? Mani di padre, mani che dovrebbero servire per carezzare, rincuorare chi ti guarda come un riferimento, come la garanzia della protezione da tutti i mali del mondo.
Sono andati su il mercoledì sera e dovevano tornare il venerdì sera. Invece li ha ammazzati e io non li riabbraccerò mai più.
Diego era un ragazzo silenzioso, riflessivo. Parlava poco ma sapeva divertirsi molto con i suoi amici. Leggeva molto e rifletteva di più. Quando eravamo in casa lui ed io non volava una mosca. Ciascuno faceva le sue cose, in serenità.
Era pieno di domande. A tre anni, una sera mi chiese se è il Sole a girare intorno alla Terra o viceversa. Il disegno con cui cercai di spiegargli le cose è ancora di là, nella sua cameretta. Lui era un leader. Un leader silenzioso. Anche in classe. Era molto bravo e la maestra ha detto che l’aiutava, specie con i suoi compagni che avevano problemi di varia natura. Era tosto, ma molto affettuoso. Ci addormentavamo insieme.
Elena era un’equilibratrice. Parlava molto, era un’alluvione di energia e di allegria. Ma era anche, sempre, bisognosa di coccole e di conforto. Era capace di trovare un modo tutto suo per superare le asperità, per oltrepassare le tensioni.
Quei due bambini riuscivano a essere di conforto per tutti, a cominciare dai nonni. Dove arrivavano portavano allegria e vita. Erano due bambini che avevano un eccezionale rispetto, direi un’etica, delle regole.
Mi mancano tantissimo. Tutto mi parla di loro. Questa è la loro casa, quella la loro stanza, qui giocavamo, studiavano, ci inseguivamo e ci tiravamo i cuscini. Mi si dice che loro sono con me spiritualmente. Ma non mi basta. Mi mancano i loro abbracci, le loro voci, le loro domande. Quel mercoledì prima che partissero, stavamo tutti e tre abbracciati sul letto di Elena. Non li ho più visti, vivi. Non li vedrò mai più.
Quei due bambini erano indipendenti da lui e da me, erano vite vive, erano persone, non erano oggetti nella disponibilità di altri. Erano persone, con un futuro davanti e un presente da vivere. Tutto cancellato. Per odio.
Cerco di reagire, anzi di resistere, alle piaghe di questo dolore. La vita va affrontata, sempre. Me lo hanno insegnato i miei genitori. Cerco di vincere la rabbia con la dolcezza, di sfidare le lacrime trovando la forza di sorridere agli altri. Ma la sera, quando si fa buio, le ombre tornano. Ogni cosa mi fa venire in mente loro. Io non lo so dove va chi scompare, ma so dove resta.
Ho scritto di trovare il meglio negli altri perché c’è in ciascuno e perché era quello che chiedevo a loro di fare: sforzarsi di trovare il lato positivo nelle persone e nei fatti. Bisogna cercare il buono nelle persone, non farsi spaventare dai loro problemi, dai loro egoismi.
Odio? Non so cosa voglia dire questa parola. Come si può odiare un essere umano? Ho dentro tanta rabbia, tanta tristezza, tanto rammarico.
E poi su chi potrei riversare l’odio? Su qualcuno che non c’è più, che aveva una personalità deviata, che mi ha odiato profondamente? Sarebbe giusto ripagare con la stessa moneta?
Il mio futuro? Lo immaginavo con Diego ed Elena. Devo realizzare bene quello che è successo. Devo sistemare il mio dolore. Devo abituarmi a vivere senza di loro. Non lo posso fare fuggendo dalle loro cose, dai giochi, dai quaderni.
Devo stare con loro, per poter stare senza di loro».