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 2020  agosto 03 Lunedì calendario

I record dell’oro nascono sui listini

Prima sono arrivate le guerre commerciali tra Stati Uniti e Cina. Poi la pandemia e il crollo di listini ed economia. E nell’incertezza generale un fiume di investimenti ha cambiato direzione puntando secco sul bene rifugio per eccellenza. A inizio 2020, quando il coronavirus era ancora confinato a Wuhan e dintorni, le quotazioni erano balzate a 1.500 dollari. A marzo, con lo sbarco del Covid in Europa, l’asticella era già salita a 1.700. A inizio giugno, con i contagi fuori controllo in Brasile e Stati Uniti, è scattata la scalata finale alla vetta. Prima superando il record storico stabilito nel 2011 e ora corteggiando la soglia psicologica dei duemila dollari all’oncia con un rialzo da inizio anno pari al 30%. Questo exploit non ha niente a che vedere con la richiesta commerciale del metallo prezioso. Anzi, gli acquisti per la gioielleria nei primi sei mesi dell’anno sono crollati del 46%. A infiammare le quotazioni è stato invece il clamoroso boom di investimenti “finanziari” nella materia prima: da inizio anno i risparmiatori globali – grandi fondi compresi – hanno iniziato a comperare a mani basse gli Etf (gli strumenti finanziari che salgono e scendono a seconda della variazione del bene cui sono legati, e che nel caso delle materie prime sono chiamati anche Etc) sull’oro. In sei mesi – tra gennaio e giugno – gli acquisti sono stati pari a un volume di 734 tonnellate di metallo, più o meno un sesto di quello prodotto ogni anno e più del record annuale messo a segno nel 2009 dagli acquisti di oro finanziario via Etf. E questa pioggia di denaro è stata il carburante che ha spedito le quotazioni alle stelle e il motivo che tiene in allerta molti operatori. Convinti che la forbice tra il boom della domanda speculativa e la disponibilità reale dei lingotti possa causare un corto circuito simile (anche se con effetti opposti, l’esplosione dei prezzi) a quello che ha spedito il petrolio sottozero in primavera.
La chiusura delle miniere
La logica che sta dietro le mosse della finanza è chiara: con il crollo del pil negli Usa – meno 32,9% nel secondo trimestre – e l’economia in panne in Europa le banche centrali non potranno non continuare a inondare il mercato di liquidità. Un fattore che alla lunga potrebbe sia destabilizzare gli equilibri valutari che innescare una fiammata speculativa. La frenata del dollaro nelle ultime settimane ha accentuato questi timori, regalando all’oro lo sprint verso quota duemila. La storia, in teoria, dice che di spazio per crescere ce n’è ancora: i valori di oggi, se si considera l’inflazione, sono ben lontani dai record assoluti. Nel gennaio 1980, ai valori attuali, l’oro valeva 2.800 dollari. E nel 2011 quasi 2.200. Non solo: durante la crisi finanziaria innescata dal fallimento della banca americana Lehman Brothers con la conseguente tempesta sui mercati, il metallo giallo raddoppiò di valore in tre anni, consolidando la meritata fama di bene-rifugio. Dall’inizio della pandemia, invece, il rialzo è ancora largamente inferiore a quella fiammata. Le valutazioni stellari di queste settimane hanno invece poco a che vedere con l’economia reale e con la legge della domanda e dell’offerta che – di solito – condiziona l’andamento delle materie prime. L’offerta, è vero, è in leggero calo causa Covid. Nei primi sei mesi dell’anno sul mercato sono arrivate 2.191 tonnellate, con un calo del 6% rispetto allo stesso periodo del 2019. La pandemia ha frenato nel primo trimestre l’estrazione dalle miniere in Cina – primo produttore mondiale – che ora sono tornate a lavorare a pieno ritmo, mentre si sono fermate o quasi quelle in Sud America e in Africa. In Messico tra aprile e giugno il calo dell’attività è stato del 62%. In Sud Africa del 56%.

Chi va dai compro-oro
Al palo (-5%) è rimasto pure il mercato dell’oro riciclato, ottenuto per lo più dalla fusione di gioielleria, con un trend che sta andando in onda in maniera uniforme in tutto il mondo: un crollo nel momento dei lockdown, quando non si ha la possibilità di portare i beni di famiglia ai compro-oro, e un’impennata subito dopo l’allentamento delle restrizioni. Con molta gente costretta a vendere i beni di casa per gestire situazioni di crisi di liquidità. Il calo dell’offerta è stato però più che bilanciato dal crollo della domanda “reale": gli acquisti di orafi e gioiellieri, pari circa al 30% del totale, sono crollati del 46% nel primo semestre. Quelli di lingotti e monete del 17% malgrado la corsa agli acquisti in Germania e Svizzera, mentre la richiesta industriale (l’oro si usa nell’elettronica) è scivolata del 19%. Anche gli acquisti delle banche centrali (Turchia in primis) sono scesi di molto rispetto ai livelli record dello scorso anno. E molti operatori, non a caso, sono scettici sul livello di quotazioni cui si è arrivati grazie al boom degli Etf proprio in un momento in cui il mercato fisico batte la fiacca.
Quanto durerà questa strana situazione? Il nodo, ovviamente, è l’evoluzione della pandemia e la capacità delle banche centrali di gestire le immissioni di liquidità senza far saltare gli equilibri dei mercati. Fino a quando continuerà a durare l’incertezza, però, è probabile che il bene rifugio d’elezione continui a brillare più di tutti gli altri strumenti finanziari, come dimostra la corsa parallela che sta facendo l’argento. Tra i fortunati che si possono fregare le mani festeggiando l’attacco a quota 2.000 c’è anche la Banca d‘Italia. Il nostro Paese è al quarto posto al mondo come quantità di riserve aurifere. Il “tesoretto” dell’istituto centrale è pari a 2.452 tonnellate, composte da 870 mila monete e da 95 mila lingotti. Nei caveau nella penisola ne è custodito solo il 46% con il resto conservato nelle casseforti di Stati Uniti (43%), Svizzera (6%) e Gran Bretagna (5,7%). E il valore totale di questa montagna d’oro è lievitato da inizio anno di 45 miliardi, a quota 168 miliardi di euro.