Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 03 Lunedì calendario

Il paese del “tengo famiglia”

“Tengo famiglia” non l’ha coniato dal nulla Leo Longanesi. È un classico interpretativo dello spirito nazionale dai tempi di Dante e della lotta tra fazioni, Comuni e Signorie, che sfociò nella sventurata chiamata dei francesi da parte di Ludovico il Moro, e da cui vennero secoli di declino italiano sotto il tallone di regni e imperi stranieri. I modelli politici, istituzionali ed economici plasmati dall’alto esercitano effetti di lungo periodo su comportamenti e preferenze dei popoli. E gli italiani sono arrivati al primo sviluppo industriale con il modello crispino di tariffe e dazi doganali. Poi sopraggiunge il fascismo statalista e corporativo. Nel dopoguerra, banche e industrie pubbliche ereditate dal fascismo rimisero in piedi il Paese. La Confindustria nemmeno la voleva la liberalizzazione degli scambi internazionali, nel 1951, come sinistra e sindacati. Nei decenni successivi, il debito pubblico ha cementato tutto. L’Italia delle rendite di posizione, delle privative, dei benefici ad hoc, delle concessioni pubbliche protratte senza gara fregandosene della direttiva europea in materia (quelle balneari sono appena state protratte fino al 2033, per quelle aeroportuali la proroga è venuta subito dopo, sia pur solo di due anni), delle centinaia di sgravi fiscali per microcategorie, tutto ciò è eredità di un canone politico-sociale che non si è mai davvero interrotto.
Il sogno degli anni Novanta
Ci fu una pausa energica: con le privatizzazioni e liberalizzazioni di inizio anni Novanta, quando anche la sinistra (e Bersani, allora) credette che l’apertura a concorrenza e mercato avrebbe innalzato produttività e crescita. Ma la pausa durò poco. Sono 25 anni che la produttività italiana è stagnante. E a ognuna delle quattro recessioni da allora, la tutela di settori e sottoinsiemi ha sempre ritrovato nella politica orecchie e borsa pronti. Per anni, la legge annuale sulla concorrenza non è più stata varata. Il più radicale contenimento dei prezzi al consumatore in 20 anni – a questo serve la concorrenza: ad allocare in maniera più competitiva ogni fattore della produzione, lavoro, capitale, beni strumentali fisici e intangibles, al fine di offrire prezzi più bassi al cliente e dunque espanderne il potere d’acquisto – è avvenuto nella trasmissione fissa e mobile di voce e dati, e si deve alla concorrenza e alla liberalizzazione delle tlc. Negli altri settori ad alta regolazione, dal trasporto pubblico locale all’energia, l’andamento di prezzi e tariffe ha praticamente sempre sopravanzato quello nominale dei prezzi: le rendite impoveriscono i clienti. Ogni anno l’Istat redige un pregevole rapporto sulla competitività dell’economia italiana. Dopo anni, sappiamo tutto di quali siano i settori in cui si annida la bassa produttività del Paese e l’effetto-povertà indotto a clienti e cittadini. Sono sopra la linea tutti i maggiori settori della manifattura e tutti i sistemi economici locali a forte interdipendenza estera: sono costretti a riuscirci, perché il morso della competitività sui mercati stranieri non conosce tutele di governo.

La caduta verso il basso
A trascinarci verso il basso sono due enormi aree. In primis il terziario non di mercato: cioè Pa e settore pubblico allargato, alieno da obiettivi di produttività stabiliti ex ante e premiati ex post (ultima conferma: è appena saltata la valutazione per dirigenti scolastici, da sempre avversata da chi non sopporta premi al merito, né metriche per dare più risorse ai plessi scolastici che ottengono migliori risultati). Ma il problema non è solo l’economia pubblica. Sta anche in vastissime aree del terziario di mercato, che offre servizi al riparo di tariffe amministrate, concessioni ed esenzioni, e al di fuori di gare trasparenti grazie alla cosiddetta “economia relazionale”. Non si tratta solo delle epiche battaglie dei notai per non veder intaccata la loro area di esclusiva, mentre per i servizi all’impresa servono studi integrati pluriprofessionali, vista anche l’erosione intanto dei redditi di decine di migliaia di geometri, architetti, commercialisti, consulenti del lavoro, ingegneri e avvocati. O dai farmacisti a difesa dell’ombrello pubblico: dopo anni di modesta apertura alla proprietà di farmacie da parte di società dei capitali, siamo a poco più del 2% sul totale delle oltre 19mila farmacie italiane. Pesano moltissimo ad esempio le microimprese di costruzione (quelle sopravvissute), che troppe volte vivono di subappalti opachi o di gare pubbliche “pilotate”, talora infiltrate da reti criminali. Ridurre le oltre 30mila stazioni pubbliche appaltanti si è rivelato un sogno. Il decreto semplificazioni ha alzato la soglia per affidamenti discrezionali e gare ipersemplificate gradite non solo ai partiti, ma anche a reti locali d’impresa radicate nel rapporto preferenziale con la politica: si tratti di opere pubbliche, di forniture sanitarie o alle supersussidiate aziende pubbliche di trasporto, e lo testimoniano centinaia d’inchieste giudiziarie. Difficile dunque prendersela con i gondolieri, che a Venezia si sono visti concedere l’ereditarietà della licenza. Perché dovrebbero superare proprio loro prove e concorsi, se per la scuola da decenni i concorsi si contano sulle dita di una mano, e abbiamo immesso in ruolo circa 180 mila docenti attingendo da graduatorie di anzianità precaria? Il disastro del Covid spingerà a una nuova caccia di tutele pubbliche differenziate, e la politica a scelte elettorali. Prendete Alitalia. Non solo rinazionalizzata senza un piano industriale. Lo Stato ha anche deciso che ai concorrenti di Alitalia vanno applicati gli stessi suoi contratti e costi. Una compagnia in perdita strutturale da anni, che movimenta solo il 7,7% dei passeggeri internazionali da e per l’Italia, per mano dello Stato schiaffeggia chi ne trasporta il 92,3% a costi e tariffe minori, e, fino al Covid, guadagnandoci. Questa è l’Italia del tengo famiglia, e milioni di italiani sperano in lei. Che poi da anni si cresca poco o nulla e ci si indebiti tanto, toccherà a qualcun altro occuparsene.