Affari&Finanza, 3 agosto 2020
Con le culle vuote il Pil crollerà del 20% in 30 anni
Gli italiani fra i 30 e i 39 anni, compresi gli stranieri regolarizzati (dati Istat di fine 2019) sono 7 milioni, quelli fra i 40 e i 49 nove milioni. «Significa che fra dieci anni nella fascia a più alta intensità produttiva della vita lavorativa, quella dei quarantenni, ci saranno due milioni in meno dei quarantenni odierni, oltre un quinto dei potenziali lavoratori, con una perdita di Pil pesantissima», dice il demografo Alessandro Rosina. Per la prima volta il decremento demografico ha un impatto drammatico sull’occupazione e la produzione. Ancora peggio andrà con la generazione successiva, perché i 20-29enni non sono più di 6,1 milioni. Ecco il volto economico della denatalità: non è più un fenomeno di costume, materia di studio per gli antropologi culturali, ma una variabile determinante dello sviluppo e della crescita. In negativo. Il calo della popolazione, «la prima emergenza economica del Paese» per dirla con Carlo Cottarelli, si impone come priorità. Meno giovani e più anziani al lavoro – spiega Cottarelli – vuol dire che mancano i più ideativi, brillanti, volitivi, e crolla la produttività». Il calo di natalità e l’invecchiamento della popolazione sono speculari. Un’azienda ricava più valore aggiunto dall’assumere un giovane ingegnere rampante che un cinquantenne demotivato. Tutto è trovarlo, l’ingegnere: l’Ocse – che ha coniato l’espressione “equilibrio basso” in cui si è arenata l’Italia negli ultimi 15 anni – ammonisce che l’investimento in capitale umano è troppo scarso tant’è che il 20% degli italiani è laureato contro il 30% di media della stessa Ocse. Causa ed effetto si intrecciano nella spirale del decremento. Chi supera le paure e decide di fare figli acquisisce anche altri meriti: è portato a fare meno vacanze, più straordinari, a impegnarsi di più per dare un futuro migliore appunto ai figli. Insomma a produrre di più e meglio. «La simmetria è provata dall’esperienza di altri Paesi che hanno avuto lo stesso problema ma alla fine l’hanno superato», spiega Brunello Rosa, docente alla London School of Economics. «L’esempio della Svezia è noto, ma anche Francia, Germania, Gran Bretagna hanno approntato sussidi, agevolazioni, infrastrutture, tali da mettere le giovani madri in condizione di fare figli e tornare al lavoro senza angosce. Sono interventi costosi ma di sicuro rendimento». Il guaio è che l’Italia vive, peggio che il resto dell’Occidente, la più grave recessione da 90 anni a questa parte. Che ha conseguenze dirette sul “tasso di fecondità”, già sceso dal 2,4 (figli per donna) della fine degli anni ’60, all’1,3 di oggi, con un declino inarrestabile cominciato ben prima della fine del XX secolo. «Il fattore incertezza è parte integrante del calo delle nascite – conferma Loredana Federico, capo economista per l’Italia di Unicredit – al pari della necessità di riconciliare lavoro e famiglia: se ciò avvenisse si utilizzerebbe almeno la riserva di lavoro femminile ancora inespressa. Così come a un ragionevole allungamento dell’età pensionabile va accompagnato un retraining più intenso anche motivazionale presso chi lavora».
Più giovani, più poveri
Oggi sono a maggior rischio di povertà, riprende Rosina che dirige il Centro di statistica applicata della Cattolica, «le famiglie in cui la persona di riferimento ha 35 anni. Le famiglie dei pensionati riescono a difendersi ma intanto il peso delle pensioni è sempre meno sostenibile dai lavoratori». Oggi il rapporto è di 1,5 attivi per pensionato contro una media europea di 2, e la parità 1:1 non tarderà. L’angoscia per il Covid aggrava le incertezze causa del decremento: un report dell’Istituto Toniolo rivela che «se prima della pandemia il 26% dei giovani pensava di fare un figlio, un terzo di essi ci ha ripensato: troppe le paure e la sensazione di essere abbandonati dallo Stato». «Prevediamo 10mila nascite in meno, di cui 4mila nel 2020, solo a causa del clima di incertezza e paura dei mesi scorsi, qualcosa di simile all’effetto Chernobyl», spiega Gian Carlo Blangiardo, demografo della Bicocca, oggi presidente dell’Istat. «Se aggiungiamo i condizionamenti economici potremmo arrivare a 20-30mila in meno». Nel 2019 il calo dei residenti ha toccato il record di 189mila, peggio dei 124mila del 2018. In cinque anni la popolazione è diminuita di 551mila residenti (oggi 60,2 milioni di cui l’8,8% stranieri, ndr )». Il calo è dovuto ai cittadini italiani: ne sono nati l’anno scorso 357mila (nel 1964 nacque un milione di bambini) rispetto ai 627mila deceduti, con un saldo negativo di 270mila. Su questa macabra contabilità il dramma Covid avrà le sue conseguenze. Il calo degli italiani ha raggiunto gli 844mila in cinque anni, come se si fosse cancellata una città come Genova. Né bastano a colmare il gap i 292mila stranieri che si sono aggiunti sempre nei cinque anni, che peraltro aumentano sempre meno: non più di 47mila nel 2019. «Perfino gli immigrati provenienti dalle zone a più alta densità abitativa – dice Veronica De Romanis, economista della Luiss – una volta insediati in Italia, rilevate le carenze di welfare si adeguano e anche loro fanno meno figli».
L’impatto sui consumi
C’è poi il discorso “qualitativo": «Oltre al Pil e ai risparmi diminuiscono e cambiano i consumi», dice Blangiardo. «I giovani hanno modelli di consumo più impegnativi e costosi». Pannoloni contro hi-tech. E il trend accelera: «Oggi abbiamo 800mila ultranovantenni che diventeranno 2 milioni tra pochi decenni. Si pone un problema di assistenza non solo pubblica: i familiari saranno sempre più impegnati ad assisterli». Guglielmo Weber, docente di Econometria all’Università di Padova, monitora per conto dello Share (Survey on health, ageing and retirement in Europe) di cui è referente per l’Italia, l’assistenza dei figli ai “grandi anziani”, che coinvolge già oggi l’11% dei 50-70enni: «L’impegno sarà sempre più oneroso perché molti di più fra i giovani anziani saranno figli unici. Quindi la denatalità delle ultime decadi e delle prossime aumenterà il peso della cura dei grandi anziani per i giovani anziani». Se tutte queste tendenze proseguiranno, avverte Adriano Giannola, economista della Federico II di Napoli e ora presidente dello Svimez, «nel 2050 l’Italia si ritroverà con un Pil inferiore per il 20% all’attuale, e il 40% nel Mezzogiorno». Com’è possibile? «La matematica e la proiezione statistica non perdonano. Il Sud perderà 5 milioni di abitanti e sarà ridotto a un’espressione geografica. Senonché, come l’Italia per l’Europa, trascinerà nel gorgo l’intero Paese. A meno che non si intervenga in modo deciso». Un tentativo c’è: il Family Act appena approvato dalla Camera, stilato dal governo ricomponendo una fitta serie di Ddl che da anni si aggiravano per il Parlamento (ora va al Senato), rafforza i sussidi. Soprattutto mette ordine in un pulviscolo di assegni familiari, bonus bebè, bonus libri scolastici e via dicendo, creando l’assegno universale unico di 200-250 euro al mese per figlio secondo il reddito. Servono 7 miliardi in più (oltre ai 15 che si recuperano dal riordino), ma basterà? «Al di là dei sussidi – commenta l’economista Enrico Giovannini, fondatore dell’Asvis, l’alleanza per lo sviluppo sostenibile – andrebbe stipulato un patto fra le generazioni, inserendo in Costituzione il principio dell’equità intergenerazionale. Imprese e Stato si devono impegnare a fare un investimento massiccio sui giovani, che non devono essere più costretti a pensare che non troveranno un impiego stabile, che il Jobs Act li ha danneggiati ulteriormente, che se faranno un figlio le madri saranno licenziate. Sarà il modo migliore per utilizzare i fondi che l’Europa si appresta a darci».