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 2020  agosto 03 Lunedì calendario

Muore la Lega Nord e nasce la Lega per Salvini Premier

Domani, proprio domani muore la Lega Nord. Non si tratta di un paradosso, ma di una data ufficiale. Perché è il giorno in cui si chiude il tesseramento del nuovo partito di Matteo Salvini: Lega per Salvini Premier. Da domani gli iscritti non saranno più gli stessi. Il nord scompare, come già annunciato in una sorta di congresso fantasma svoltosi qualche mese fa in clandestinità. Ma soprattutto svaniscono i vecchi tesserati. Evapora la figura del sostenitore tradizionale, quello legato alla “questione settentrionale”. Quello che organizzava i gazebo e andava a Pontida come a un santuario. Quello che il “fondatore” Umberto Bossi chiamava il «militante ignoto».
Ma l’appuntamento che era stato organizzato per celebrare la leadership del segretario leghista e per incoronarlo sovrano di tutte le Leghe rischia di trasformarsi nel più classico dei contrappassi. Perché sotto il manto lucidato del salvinismo inizia a covare la cenere della rivolta. Una ribellione dal basso e non dall’alto. Animata dalla base e non dai vertici dirigenziali. Una situazione del tutto anomala per un movimento che storicamente viveva nella totale identificazione del “capo” con gli iscritti.
I numeri ufficiali del tesseramento sono stati comunicati fino ad ora con un certo entusiasmo. A febbraio già in oltre 50 mila avevano versato i dieci euro per iscriversi al partito nuovo e mantenere gratuitamente la tessera del partito “vecchio”. Nei prossimi giorni ci dovrebbe essere il risultato definitivo. Da tenere presente che secondo gli ultimi dati pubblicati nel 2017 gli iscritti erano circa 80 mila: 19 mila cosiddetti “militanti” e 60 mila “sostenitori”. Quindi non una grande differenza rispetto alla cifra annunciata prima del lockdown.
Ma quel che non dice la propaganda è che una fetta importante dei militanti storici non ha rinnovato l’iscrizione. I responsabili dell’organizzazione di un tempo parlano di almeno un terzo. Almeno il 30 per cento, dunque, rinuncia. Molti di loro si definiscono bossiani, maroniani. Ma non salviniani. E si allontanano proprio perché manca la parola per loro “magica”: Nord. L’indipendenza, il federalismo, l’Autonomia era la ragione sociale della forza politica ideata da Bossi. Senza quelle prospettive – giuste o sbagliate che fossero –, si assiste ad una mutazione genetica della Lega. Il “padano” che impegnava le vacanze nelle feste di partito si sente “disimpegnato” dal personalismo sovranista.
Non è un caso che pochi mesi fa, prima che venisse ricoverato in ospedale, il Senatur avesse presentato al segretario del Carroccio una sola preghiera: «Non chiudete la Lega Nord». Salvini lo aveva rassicurato. E formalmente ha rispettato l’impegno. La Lega nord sopravvive, si pratica una specie di doppio tesseramento che la tiene in vita. Di fatto, però, è un guscio vuoto. Una “bad company” cui lasciare soprattutto in debito quei 49 milioni ancora da restituire.
Nonostante il segretario della Lega lombarda, Paolo Grimoldi, getti acqua sul fuoco annunciando che dalle sue parti gli iscritti «sono quintuplicati» sebbene non sia in grado di avere i dati sulla permanenza dei vecchi iscritti, che qualcosa non funzioni proprio bene lo si capisce da altri due elementi oggettivi. Il primo: la sede del nuovo partito non è più Via Bellerio, ma Via Privata delle Stelle. Secondo molti, una furbizia tattico-giudiziaria.
Il secondo è ancora più concreto: Salvini punta a compensare l’esodo nordista con i nuovi ingressi, anche “sudisti”. La sua Lega Nazionale apre i battenti alla destra da Napoli a Palermo. Eppure, se si prende l’ultimo bilancio ufficiale del Carroccio si capisce che l’operazione non sarà facile. Che la militanza settentrionale è ancora assolutamente prevalente, a partire dal piano economico. I contribuenti che hanno versato nella dichiarazione dei redditi il 2xmille alla Lega sono stati 63.689 per un totale di 753.093 euro. La distribuzione geografica è illuminante: i finanziatori più numerosi sono i lombardi, circa 24 mila. Seguiti dai veneti, circa 20 mila. Terzi sul podio i piemontesi: 5 mila. Le regioni del sud sono, come prevedibile, i fanalini di coda. Ma molto in coda. I sardi sono più attivi ma non arrivano a trecento e i siciliani sono appena 266. Numeri che hanno ancora più irritato i “militanti ignoti” del nord.
La rivolta della base nordista, però, non può essere spiegata solamente con l’abbandono delle idee originarie. In politica e soprattutto nelle leadership conta il consenso e i risultati. Ecco il punto: dal Papeete 2019 ad oggi, il malumore degli iscritti si associa alle critiche mai esplicite ma molto presenti di una parte importante della classe dirigente. Da Giancarlo Giorgetti a Luca Zaia fino all’”esiliato” Roberto Maroni. Il “capo” la scorsa estate ha provocato la crisi di governo promettendo il voto anticipato. Poi ha garantito di espugnare la rossa Emilia Romagna. Quindi ha cavalcato il sovranismo antieuropeista durante l’epidemia Covid assicurando che l’Ue non avrebbe dato un centesimo all’Italia. Ha chiesto di chiudere tutte le regioni e poco dopo di aprirle come ha fatto il brasiliano Bolsonaro. Mentre i suoi governatori emettevano disposizioni per l’uso del mascherina, lui se la levava. Una serie di fattori che hanno indispettito. E così succede che Giancarlo Giorgetti ha deciso di disertare la festa di partito a Cervia, in Romagna (per evitare una frattura ufficiale si limiterà a un saluto in video), subito sostituito dal più fedele Alberto Bagnai. «Dovrei dire come la penso su tante cose. Per il momento – spiega invocando il silenzio – non è il caso. Se mi cercano, dite che sono in vacanza su Marte». I rapporti, del resto, sono tesi dal 2012 quando Giorgetti era segretario della Lega Lombarda e Salvini nella sostanza lo ha cacciato.
Anche il governatore del Veneto è indeciso sul da farsi. Lì, al Papeete, proprio non vorrebbe andarci. È in campagna elettorale per la Regione e nella gestione del Coronavirus è stato sistematicamente smentito dal suo segretario. Uno dei suoi più stretti collaboratori di Venezia ammette: «Luca è fuori dalla grazia di Dio. In particolare per la tesi negazionista di Matteo». Alla fine, però, il “Doge” assesterà un colpo ma non lo affonderà. Un anno fa, ad esempio, durante la Festa del cinema disse apertamente e con una punta di acredine che «Matteo aveva sbagliato tutti i tempi della crisi di governo». Ma non andò oltre. Chi lo conosce bene interpreta le sue mosse senza prevedere strappi: «Luca è un leninista, fa quel che gli dice il partito. Nel 2010 era ministro dell’Agricoltura, avrebbe voluto fare il commissario europeo ma gli hanno detto che doveva andare in Regione e ci è andato».
Resta il fatto che Zaia viene vissuto da Salvini come un “competitor”. Il Governatore lo sa. Se ne è accorto anche di recente constatando che nell’agenda del leader allo stato non c’è nemmeno un tappa in Veneto in vista del voto del 21 settembre.(1 – continua).



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«Salvini ha un problema: può essere fascista e comunista nello stesso momento. È un opportunista, occupa gli spazi». Era questo il ritratto del segretario leghista scolpito qualche mese fa da Umberto Bossi. Ma la parte finale di quella frase, «occupa gli spazi», è forse la più importante in questa fase. Da oggi ci sono due partiti, la “vecchia” e la “nuova” Lega. In politica, però, gli spazi non restano mai vuoti. C’è sempre qualcuno che li riempie. E se la “nuova” Lega è quella colmata da Salvini, qualcuno farà lo stesso con la “vecchia”. La parola “scissione”, allora, per la prima volta scuote anche il Carroccio.
Certo, in questo caso contano molto i rapporti personali tra i dirigenti: quelli che si sentono ancora legati al Senatur e quelli della generazione sovranista. E poi ci sono le divioni regionali. La diffidenza è una caratteristica storica dei leghisti. Veneti e Lombardi sono da sempre avversari interni. Dai tempi in cui Bossi annientò, negli anni ’90, il capo della Liga Veneta Franco Rocchetta. Quel dualismo si sta replicando.
In questo caso, però, non si tratta solo rivalità. C’è dell’altro. Qualcosa di più profondo. E per Salvini di molto più pericoloso. Il presidente della Regione Veneto nelle ultime settimane ha fatto testare in alcuni sondaggi il potenziale di una sua eventuale lista personale, la Lista Zaia. Risultato: nella sua regione conquisterebbe quasi il 40 per cento. E la Lega scenderebbe al 10. Una prospettiva che fa letteralmente impazzire l’ex ministro dell’Interno. Sarebbe uno smacco e una sfida.
Non è un caso, infatti, che Salvini tenga gli occhi costantemente puntati su quella componente del partito. C’è un episodio, abbastanza recente, che fa capire quanto sia denso il sospetto. Toni Da Re è un eurodeputato del Carroccio, eletto nel 2019. Ma soprattutto è l’ex segretario della Lega in Veneto. Un fedelissimo di Zaia. Appena approdato a Strasburgo è stato rimosso. Al suo posto Salvini ha mandato l’ex ministro Lorenzo Fontana, tra l’altro uno dei testimoni viventi dei legami del Carroccio a trazione salviniana con la destra radicale, nella fattispecie con “Fiamma Futura”. Il tutto è stato motivato con una norma statutaria che prevede l’incompatibilità tra parlamentare e segretario regionale. Peccato che quella disposizione è disattesa ovunque. Tranne, appunto, che in Veneto.
La Lega, insomma, è una comunità in cui si litiga e non poco. Magari non lo si da a vedere, ma il fuoco dello scontro è sempre acceso. Non c’è solo la sfiducia tradizionale e reciproca tra lombardi e veneti. Una grande fucina di rancori è il cosiddetto MGP, il Movimento dei Giovani Padani. In quella sede nascono e poi permangono diatribe e incomprensioni. Basti pensare a Paolo Grimoldi, segretario lombardo e formalmente salviniano. Eppure gli scontri del passato nell’MGP sembrano non poter essere cancellati. Visto che Salvini ha di fatto commissariato anche lui nominando responsabile organizzativo Andrea Crippa. La Lega, dunque, è tutt’altro che un campo completamente pacificato. Non c’è dubbio che chi in questo momento è deputato, senatore o consigliere regionale non muoverà un dito - almeno non lo farà ufficialmente - contro il segretario. Le critiche di Giorgetti e di Zaia sono furiose ma non sfondano mai il diaframma della pubblicità. Basti pensare a Gianna Gancia, moglie di Roberto Calderoli. Dieci giorni fa ha pubblicato un post per apprezzare l’accordo dell’esecutivo sul Recovery Fund e poco dopo lo ha cancellato. Al momento, dunque, il gruppo dirigente non si scaglierà nel tentativo di una defenestrazione. Il prossimo anno, invece, sarà davvero la cartina tornasole per capire se Salvini rimarrà sulla tolda di comando o meno.
C’è, infatti, una sequenza di appuntamenti che possono segnare il suo destino e soprattutto quello della Lega. Nel 2021 il vero stress test si chiamerà: rischio scissione. L’insuccesso di Salvini può far sfaldare un soggetto che si è sempre presentato come un monolite.
Il saldo sarà tratto dopo aver consumato quattro passaggi: le prossime regionali di settembre e quelle della prossima primavera. Poi ci sarà il verdetto sul governo Conte2: se andrà in crisi e se si terranno le elezioni nazionali anticipate come il leader promette da tempo allorà Salvini registrerà la vittoria, altrimenti segnerà la sua sconfitta. Che può peggiorare se verrà approvata una legge elettorale proporzionale: sarebbe il definitivo isolamento del Carroccio rispetto a Fratelli d’Italia e Forza Italia. Il cronoprogramma salviniano rischia di evaporare e il conto sarà presentato tutto insieme al Congresso previsto proprio per il prossimo anno. In questo quadro c’è un ulteriore spettro che farebbe precipitare ancor più velocemente gli eventi: il sorpasso di Fratelli d’Italia sulla Lega. La vittoria di Meloni su Salvini non è solo un paradosso, ma un pericolo che molti “colonnelli” lumbard agitano. Una eventualità che provocherebbe una vera e propria esplosione, sia a settembre sia a maggio prossimo.
Una scissione del resto, in tutte le riunioni di sezione del nord, non è più un tabù. Il passaggio da Lega Nord a Lega per Salvini Premier rappresenta una gigantesca legittimazione emotiva. Che può avere una base “politica” se, appunto, i quattro test del 2021 verranno falliti. Se, cioè, la leadership di Salvini venisse incrinata dai fatti e non solo dai sondaggi.
Ma soprattutto da qualche giorno ha assunto persino un fondamento giuridico. Quale? I nostalgici di Bossi hanno chiesto un parere ad alcuni avvocati. La scelta di “regalare” e di non far pagare l’iscrizione alla Lega Nord che viene mantenuta in vita solo formalmente, potrebbe invalidare l’intero percorso che conduce alla Lega per Salvini Premier e al sistema del doppio tesseramento. Alcuni dirigente fedeli al Senatur sono pronti a far valere l’illegittimità e a riprendersi il simbolo, il nome e l’immagine di Alberto da Giussano. Tutto si fonda su un interrogativo presente nei pareri legali: «E’ possibile non pagare le quote associative per un partito che avrebbe ancora 49 milioni di debito con lo Stato?». Gianluca Pini, ex deputato leghista e sfidante di Salvini all’ultimo Congresso, insieme ad una ventina di esponenti della vecchia guardia ha inviato una diffida a Igor Iezzi, il Commissario federale della Lega Nord (Salvini si è dimesso dalla segreteria per incompatibilità rispetto al nuovo partito), richiamando proprio le procedure del tesseramento. «In attesa di ricevere un celere e puntuale riscontro, significando sin d’ora che in caso di palesi violazioni delle norme interne, saranno espletati tutti gli atti necessari al rispetto dello statuto e del regolamento ».
L’universo leghista, dunque, sta entrando in fibrillazione. Se non supererà lo stress test del 2021, allora partirà la caccia a Salvini o si aprirà la ricerca del nuovo segretario della Lega Nord scissionista. E il prescelto sarà cercato in quello che un tempo era il cerchio magico di Bossi, a partire da Maroni. Il progetto sovranista, insomma, non corre più lungo i binari della certezza ma della precarietà. Gli spazi in politica non restano mai vuoti troppo a lungo.
(2. fine)