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 2020  agosto 02 Domenica calendario

La strage di Bologna 2 agosto 1980


I bonifici del Venerabile Ginevra, 13 settembre 1982. L’aria fresca del pomeriggio annuncia pioggia; tra le persone che si affrettano davanti alla palazzina d’angolo color crema della locale filiale di Ubs, uno dei templi della finanza elvetica, qualcuna stringe l’ombrello. Il vero temporale, però, sta per scoppiare oltre le porte a vetri dell’edificio, discretamente marcate dal logo con le tre chiavi incrociate. Nell’atrio, i poliziotti si scambiano un cenno d’intesa quando entra un uomo di sessant’anni, impermeabile color avana e cappello scuro schiacciato sui capelli tinti di nero come i baffi che s’è fatto crescere sul volto segnato dagli anni e lo fanno assomigliare a una grottesca imitazione dell’ispettore Clouseau. Il silenzio felpato del salone d’ingresso è rotto da una discussione, il vecchio baffuto stringe al petto una grossa borsa nera, ma i poliziotti non hanno esitazioni. Il passaporto falso non li inganna. È Licio Gelli, gran maestro della loggia P2, latitante da 14 mesi, rientrato di nascosto in Svizzera per sottrarre il proprio ingente patrimonio al sequestro da parte della magistratura. Lo insegue un mandato Interpol per truffa sui titoli della Rizzoli, mediante cui si sarebbe appropriato di una manciata di miliardi del banco Ambrosiano di Roberto Calvi, trovato morto impiccato al ponte dei Frati Neri a Londra, tre mesi prima dell’arresto di Gelli. La polizia verbalizza la mole di documenti che il Venerabile si porta appresso: ricevute, schemi contabili, tracciati di pagamento, numeri di conto, tutti da decodificare. Il n. 27, per esempio: un foglio a quadretti diviso in colonne su cui sono annotati una serie di pagamenti effettuati a partire dal 3 settembre 1980 a soggetti come “Dif. Mi.” e “Difes. Roma”. L’intestazione, dattiloscritta, consisteva in un numero di conto preceduto da “Bologna”. Nel 1982 Gelli non è ancora stato incriminato nel processo per la strage. Il documento passa quindi inosservato, e finisce a Milano, nel calderone degli incartamenti del processo per il crack dell’Ambrosiano, senza che ai magistrati bolognesi ne giunga notizia, nemmeno quando Gelli viene iscritto tra gli indagati. Anche perché a Milano succede qualcosa. Nella fotocopia allegata al verbale d’interrogatorio di Gelli, al “documento Bologna” è tagliata via l’intestazione. Sciatteria o malafede? Impossibile dirlo. La copia del documento viaggia mutilata per le procure d’Italia, appresso ai verbali di Gelli, ma il rimando a Bologna, dunque alla strage, è sparito. Provvidenziale, visto che nel frattempo il Venerabile è processato e condannato per aver dato impulso al depistaggio delle indagini. Finché il lavoro certosino dei consulenti dell’associazione dei famigliari delle vittime della strage, sulle copie digitalizzate degli atti dei processi non ripesca l’originale del “documento Bologna”, insieme a un altro appunto di Gelli relativo a cospicui movimenti di denaro prima della strage. E oggi, quarant’anni dopo, queste e altre carte sono tra le colonne portanti del cosiddetto “processo sui mandanti” della strage alla stazione, che si aprirà il prossimo autunno, quinto capitolo di una vicenda giudiziaria complicatissima. La denominazione è suggestiva, purtroppo non ci sarà nessun potenziale mandante alla sbarra, ma il procedimento, per valutare le responsabilità degli imputati (un altro possibile esecutore materiale e nuovi depistatori), dovrà riesaminare il ruolo di Gelli e altre figure di vertice della P2 come possibili finanziatori e ispiratori della strage: secondo l’accusa della Procura Generale di Bologna, il Venerabile avrebbe consegnato ad alcuni esponenti della destra eversiva un milione di dollari, poco prima del 2 agosto. La storia del “documento Bologna” è rappresentativa di una vicenda segnata sin dal principio dal caos, dall’ambiguità, dalla complessità labirintica, in cui è difficilissimo discernere la menzogna dal vero. Questo caos ha contribuito a determinare una particolarità della strage di Bologna. Nonostante, in un rosario di stragi impunite o quasi, rappresenti una lodevole eccezione, dato che, nel corso di diversi processi sono stati condannati quattro esecutori materiali, tutti giovanissimi appartenenti ai Nar neofascisti (Giuseppe Valerio Fioravanti, detto Giusva, 22 anni all’epoca dei fatti, la sua fidanzata e poi moglie Francesca Mambro, di 21, Luigi Ciavardini, appena 17enne, e da ultimo il 28enne Gilberto Cavallini, con sentenza di primo grado del gennaio 2020) e altrettanti autori dei depistaggi (insieme a Gelli, il generale piduista del Sismi Pietro Musumeci, il suo collega colonnello Giuseppe Belmonte e il faccendiere Francesco Pazienza, massoni ma non P2), tuttavia gli esiti dei processi continuano a essere contestati da un’agguerrita e variopinta pattuglia di innocentisti. I “depistaggi mediatici” continuano ad alimentare l’entropia, e forse questo è il vero capolavoro di chi volle intralciare le indagini con ogni mezzo. Ma è pure lo specchio della complessità del contesto in cui la strage è avvenuta: sono molti gli interessi inconfessabili e le rivalità segrete che s’intrecciano e si accavallano dentro e fuori dall’Italia, nell’estate del 1980. Can’t see the wood because of the trees ("non vedi il bosco per colpa degli alberi") dicono gli inglesi, quando si rischia di perdere di vista il quadro d’insieme di una vicenda, distratti da un groviglio di dettagli confusi, intricati e contraddittori. È un rischio costante, quando ci sia avvicina alla storia della bomba di Bologna. In attesa del nuovo processo, per provare a capire questa strage dobbiamo ricominciare dal principio, cercando di non perdere di vista il quadro d’insieme, mentre ci addentriamo nel bosco. Se dici 2 agosto, insieme all’orrore indicibile dei corpi orrendamente massacrati, chi c’era ricorda la polvere che soffocava e copriva tutto, confondendo i colori, i volti, le cose. Le riprese dei soccorsi sono strazianti. Tra le macerie si rincorrono le persone intente a prestare aiuto con barelle improvvisate oppure a braccia. «Dio boia», singhiozza una voce d’uomo prima di spegnersi. «Una bombola d’ossigeno, urgente», urla un altro nel megafono. I vigili del fuoco si chinano a parlare con tenerezza ai sepolti vivi, per rassicurarli. La risposta della città è impressionante, commovente, insieme umana e politica: insieme ai processi e le polemiche, il volume Storia di una bomba di Cinzia Venturoli ricostruisce in modo struggente e documentato cosa fu la strage per la città. Quella città ha il volto di Agide Melloni, l’autista del bus 37, trasformato dai lenzuoli in un pietoso carro funebre, un uomo schivo, con l’orgoglio dell’operaio che ha studiato con le “150 ore”. Bologna è stata colpita anche per questo: una bomba fascista contro la vetrina del buon governo dei comunisti. Ovvero la città dominata da «un autentico racket di marca marxista», per dirla nei termini dei convenuti all’Hotel Parco dei Principi per il convegno del 3 maggio 1965, con cui fu tenuta a battesimo la strategia della tensione, come declinazione delle dottrine della “guerra non ortodossa” anticomunista in Italia, Paese chiave nello scacchiere della Guerra Fredda. Dopo la solita, insostenibile tesi dello scoppio di una caldaia, utilizzata dalle istituzioni per guadagnare tempo (un evergreen inaugurato il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana), si accavallano le rivendicazioni, tutte smentite. Risibile quella delle Brigate Rosse. Più inquietanti le due telefonate di sedicenti membri dei Nar, la cui origine non è mai stata chiarita: una alla redazione romana di Repubblica, l’altra, subito smentita, all’Agenzia Italia. «Onore al camerata Tuti», dice il primo telefonista. Si riferisce al terrorista neofascista Mario, rinviato a giudizio per la bomba sul treno Italicus del 4 agosto 1974 con sentenza depositata presso il Tribunale di Bologna proprio il giorno prima della strage. Tre giorni dopo, il difensore di Tuti annuncia alla stampa l’intenzione di chiedere lo spostamento del processo per legittima suspicione, perché la strage alla stazione potrebbe influenzare il giudizio dell’Assise bolognese sugli imputati dell’Italicus. Ancor più inquietante il fatto che, sulla base di un identikit, sia subito data in pasto alla stampa l’ipotesi del coinvolgimento del neofascista Marco Affatigato, già membro di Ordine nuovo e collaboratore dei servizi segreti italiani e francesi, che però si sfila subito grazie a un solido alibi. Era accaduta la stessa cosa il giorno dopo la tragedia del DC9 nei cieli di Ustica, poco più di un mese prima: una telefonata anonima al Corriere della Sera indicava la causa in una bomba dei Nar portata a bordo da Affatigato. Ma il neofascista era vivo e smentì subito. Restano i dubbi sull’origine e il significato di questi “depistaggi gemelli”. Trascorse 48 ore di cautela, il presidente del Consiglio Francesco Cossiga parla al Senato di una pista nera. Sulla stampa trapela l’esistenza di un rapporto della Digos in questo senso, mentre si sarebbe chiamata a raccolta la vecchia squadra del questore Emilio Santillo, ex capo dell’Ispettorato antiterrorismo del Viminale, creato nel giugno ‘74, subito dopo la strage di Brescia, per contrastare l’eversione nera dopo anni di inerzia e collusioni, in sostituzione dell’Ufficio Affari riservati guidato da Umberto Federico d’Amato. Protagonista della macchinazione contro gli anarchici nella strage di piazza Fontana e altre oscure vicende, il defunto D’Amato è una delle figure sotto esame nella nuova inchiesta sui mandanti. Sembra che “Zafferano”, uno dei destinatari dei bonifici di Gelli, fosse il nomignolo affibbiatogli dal Venerabile, visto che era un noto gourmet. Nel 1978 Santillo sembrava il candidato naturale alla guida del Sisde (il servizio segreto civile appena costituito, insieme al Sismi, con la legge di riforma dell’intelligence, sulle ceneri del Sid travolto dagli scandali connessi a piazza Fontana e ai tentati golpe), ma fu messo da parte, scontando quasi certamente le sue precoci, ostinate indagini su Gelli. Il marchio di fabbrica della strage non è messo in discussione nemmeno nel sottobosco neofascista. Lo confermano persino esponenti del gotha dell’estrema destra carceraria, raccolto intorno alla rivista Quex (tristemente nota per la rubrica che segnalava gli “infami” da eliminare). Da tempo circolano «preoccupanti fermenti di rilancio, anche mediante attentati indiscriminati (…), tali da spargere un diffuso terrore e un bisogno di risposta forte e autoritaria», come scrissero i giudici d’Appello nel 1994. Per esempio, il manoscritto Linea politica sequestrato a Latina il 10 settembre 1980, in cui risuonano gli echi delle dottrine di Franco Freda (storicamente riconosciuto tra i responsabili di piazza Fontana): «bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi e i treni siano insicuri; bisogna ripristinare il terrore e la paralisi della circolazione (…) Occorre una esplosione da cui non escano che fantasmi». Il clima sociale e politico del 1980, dal punto di vista di chi vuole condizionare col terrore la vita del Paese (e di chi, coprendo gli stragisti, vuole strumentalizzarli, cioè «destabilizzare per stabilizzare», secondo la felice espressione coniata dal terrorista nero Vincenzo Vinciguerra), sembra perfetto. Un anno di sangue Sul piano internazionale, il 1980 si apre con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, che “riaccende” la Guerra fredda. Nel Mediterraneo, la situazione è esplosiva: con l’inasprirsi delle tensioni tra la Libia di Gheddafi, gli Usa e la Francia (che sfociano un lungo conflitto nel Ciad settentrionale), l’Italia viene a trovarsi in una posizione molto scomoda rispetto ai propri alleati, per via degli importanti interessi economici che ci legano al regime di Tripoli (nel 1976 la banca centrale libica ha acquisito il 10% della Fiat mentre il giro d’affari e le commesse alle aziende italiane valgono centinaia di miliardi di lire). A pagarne le spese sono gli 81 innocenti del DC9 abbattuto nei pressi di Ustica, in un cielo di guerra non dichiarata tra Libia e Paesi Nato. L’esplorazione dei possibili legami tra Ustica e la strage di Bologna, come vedremo, ha impegnato a lungo la magistratura, e continua a far discutere. Sotto il profilo interno, il Paese è ancora sprofondato nella crisi economica, le imprese comprimono i salari, la disoccupazione è quasi al 7%. Pur fiaccata dall’emergenza terroristica, la conflittualità sindacale si riacutizza, finché la “marcia dei 40.000” (i colletti bianchi Fiat che vogliono interrompere lo sciopero delle tute blu contro i licenziamenti), in autunno, segna l’inizio della fine del potere delle confederazioni. Dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, Dc e Pci hanno abbandonato la prospettiva della “solidarietà nazionale”. Bisogna attendere fino al 1981 perché, dopo lo scandalo P2, si consolidi la formula del “pentapartito” che reggerà il Paese fino alle soglie di Tangentopoli. Nell’80 la situazione è ancora liquida. Cossiga rimpiazza Andreotti a Palazzo Chigi, nonostante la gestione fallimentare del caso Moro dal Viminale, e governa appoggiandosi prima a una coalizione di centro, poi, al tempo della strage, con i socialisti, mentre si susseguono gli scandali (l’affare Eni-Petromin, la fuga del figlio terrorista di Donat-Cattin, il sequestro Cirillo...) e dietro le quinte spadroneggia la loggia P2 di Gelli, che innerva i gangli del potere ai massimi livelli, dalle forze di sicurezza alla finanza, all’informazione. La ricerca di nuovi equilibri è scandita da scoppi di violenza terroristica e non solo. A tre giorni dal Natale 1980 esce nei cinema italiani Shining, il capolavoro horror di Stanley Kubrick, e da noi, al termine dell’anno più cruento della storia repubblicana, la visione dell’onda di sangue che si schianta contro gli ascensori dell’Overlook Hotel ha quasi il sapore dell’esorcismo. Cosa nostra continua inaugura l’anno con l’omicidio politico-mafioso del presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella (per il quale è stato indagato come killer Giusva Fioravanti, assolto nonostante i pesanti indizi a suo carico, a cui le recenti inchieste hanno aggiunto nuovi elementi), mentre il 6 agosto, pochi giorni dopo la strage, elimina il procuratore capo di Palermo Gaetano Costa. Ai morti di Ustica e di Bologna si sommano 36 vittime di terrorismo individuale nel corso dei mesi, 30 di brigatisti e affini e 6 dei Nar. Il terrorismo rosso monopolizza l’attenzione dei media e delle forze di sicurezza, finché il 23 giugno 1980 l’omicidio a Roma del sostituto procuratore Mario Amato, lasciato da solo a indagare sul terrorismo nero, alza il livello d’allarme verso un fenomeno a lungo colpevolmente sottovalutato. A uno sguardo superficiale, Bologna sembra il ritorno inatteso e incomprensibile di uno stragismo nero inabissatosi dopo la sequela di attentati tra il 1969 e il ‘74 (anche per questo le ipotesi alternative alla matrice neofascista hanno tanta presa nel dibattito pubblico), ma non è così. La strage annunciata Come le altre stragi, anche quella del 2 agosto è stata preceduta da uno sciame sismico di attentati, di cui s’è persa memoria perché mancati o solo sfiorati. Alla fine degli anni Settanta l’estrema destra è in ebollizione. Dopo lo scioglimento delle organizzazioni principali, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, i leader storici riorganizzano il campo facendo ricorso a sigle diverse, utilizzando spesso le riviste come punti d’aggregazioni legali. La galassia neofascista era fluida, con frequenti scambi e contatti tra gruppi e sigle diverse, la cui varietà è funzionale a disorientare gli inquirenti. Dopo Anno Zero, il mondo ordinovista esprime Costruiamo l’Azione (Cla) e il Movimento popolare rivoluzionario (Mpr), che a partire dal 1978 a Roma passa dai piccoli attentati (al ministero di Grazia e giustizia, all’Autoparco, alla Prefettura), in crescendo, alle esplosioni nella sala consigliare del Campidoglio e al carcere di Regina Coeli, fino all’autobomba davanti al Csm del 20 maggio 1979, per fortuna inesplosa. Si sfiora la strage anche il 30 luglio 1980, a Milano, con un’altra autobomba di destra, piazzata fuori dal Consiglio comunale, accompagnata dalla rivendicazione di una sigla fittizia di sinistra. In questo contesto nascono anche Terza Posizione e soprattutto i Nar, che si definiscono “spontaneisti” (in opposizione ai vecchi modelli gerarchici di organizzazione) e si contraddistinguono subito per ferocia e determinazione. Privilegiano rapine e attentati individuali, ma non si fanno scrupolo a gettare due bombe a mano contro cinquanta militanti riuniti in una sezione del Pci all’Esquilino. La corrispondenza in carcere e molte testimonianze attestano la vicinanza di Mambro e Fioravanti ad ambienti e personaggi che teorizzano l’uso della strage. Sono i Nar Cavallini e Ciavardini a uccidere il pm Mario Amato, che cominciava a dare una lettura complessiva del terrorismo nero, in particolare i rapporti tra Paolo Signorelli, leader storico di Ordine nuovo, le giovani leve (tra cui Valerio Fioravanti) e Aldo Semerari, criminologo di fama, docente alla Sapienza, affiliato alla P2 e neonazista dichiarato, ideologo e connettore tra la loggia e il mondo criminale; un tessuto eversivo che coinvolgeva insospettabili ambienti giudiziari romani (il Nar Alessandro Alibrandi è figlio di un giudice istruttore collega di Amato). Tre mesi prima di essere ucciso, il sostituto procuratore denuncia davanti al Csm come l’ambiente della destra romana abbia «legami e diramazioni dappertutto». Bologna fu una strage annunciata. Il primo processo ha accertato che alle soglie del 2 agosto, nella galassia dell’eversione di destra era diffusa la consapevolezza «che si stavano per realizzare programmi terroristici di dimensioni così vaste da poter essere identificati facilmente con la strage di Bologna», si legge nella sentenza d’Appello del ‘94. Pochi giorni prima Massimiliano Fachini, il padovano dagli occhi di ghiaccio, figura di spicco della destra veneta, legatissimo a Freda, avverte una militante di allontanarsi da Bologna, perché sarebbe successo
«qualcosa di grosso», mentre il 17enne Ciavardini telefona alla sua ragazza per dirle di non mettersi in viaggio prima del 3 agosto. Ma l’anticipazione più clamorosa viene dalle carceri. Nel giugno 1980, al Due Palazzi di Padova, Luigi Vettore Presilio, detenuto comune avvicinatosi alla destra, chiede di parlare al magistrato di sorveglianza, all’epoca Giovanni Tamburino. Racconta di aver saputo dal neofascista veneto Roberto Rinani, vicino a Fachini, che i «neri» stanno preparando un attentato contro il giudice Stiz, che con Calogero aveva dato sostanza alla «pista nera» nell’inchiesta di piazza Fontana e, soprattutto, che «nella prima settimana d’agosto succederà qualche cosa di grosso di cui parlerà l’opinione pubblica nazionale e mondiale». In relazione all’allarme lanciato da Vettore Presilio, tra gli imputati del “processo ai mandanti” figura anche il generale Quintino Spella. Nel 1980 era capocentro del Sisde a Padova, Tamburino lo allertò su indicazione dei Carabinieri. Spella nega (ammetterlo, d’altra parte, vorrebbe dire dar conto dell’inerzia e delle omissioni dell’epoca), per questo gli è contestato il reato di depistaggio (art. 375 del codice penale) introdotto nel 2016 grazie a una battaglia condotta in primis dal presidente dell’associazione Paolo Bolognesi. Per lo stesso reato sarà processato l’allora capitano dei Carabinieri Piergiorgio Segatel, accusato di aver mentito, negando di aver interpellato, in prossimità della strage, la moglie di un ordinovista proprio per cercare notizie sul colossale attentato di cui si parlava in quegli ambienti. Il 5 agosto 1980, il titolone di prima pagina del Corriere della Sera, “Cossiga al Senato conferma la pista nera” è smorzato da un pezzo nel taglio basso: “L’ipotesi di un mandante straniero. Si guarda anche a trame mediterranee”. Il quotidiano di via Solferino all’epoca è saldamente controllato della P2, e lo stesso i vertici dei servizi segreti; il piduista Grassini, numero uno del Sisde, si vantava addirittura con il ministro dell’Interno Rognoni delle proprie entrature al Corriere. La fonte del pezzo sono infatti «gli esperti della sicurezza» che preferiscono «immaginare altri scenari. Quelli dei campi paramilitari libici, palestinesi e libanesi». Le indagini di polizia giudiziaria, però, procedono spedite in un’altra direzione. Sulla scorta di un ampio rapporto della Digos, il 28 agosto 1980 sono emessi i primi ordini di cattura, tutti contro esponenti dell’estrema destra veneta e romana, incluso il potente Aldo Semerari, il quale, incarcerato, mostra ben presto segni di cedimento. E se decidesse di collaborare con la giustizia? (in quegli stessi mesi la magistratura sta utilizzando, con grande successo, i nuovi strumenti legislativi sui “pentiti") Prontamente, ai primi di settembre, per sviare le indagini dagli ambienti della destra collegati alla P2 si muove Gelli in persona. Convoca il Questore Elio Cioppa, vicedirettore del Sisde affiliato alla loggia e gli dice che stanno sbagliando tutto: l’organizzazione dell’attentato è internazionale. Da quel momento in poi si consumano tali e tante azioni per sviare le indagini da rendere il processo per la strage di Bologna una sorta di enciclopedia del depistaggio. Protagonista principale fu il Sismi, il servizio segreto militare, e in particolare il nucleo di vertice ribattezzato “SuperSismi” da una specifica inchiesta del Tribunale di Roma che ne giudicò l’operato in parallelo all’inchiesta bolognese. Includeva il direttore Santovito, Musumeci (che era il capo dell’Ufficio controllo e sicurezza, incaricato di vigilare sulla regolarità delle attività del servizio), il suo collaboratore Belmonte e il super- consulente Francesco Pazienza, giovane e brillante poliglotta con ottime entrature in Vaticano, descritto come “agente d’influenza” degli Usa (nel film I banchieri di Dio di Giuseppe Ferrara lo interpreta un fascinoso Alessandro Gassman, ma non era così bello). Usarono, innanzitutto, un’accorta mescolanza di notizie vere e false, per confondere gli inquirenti. Per esempio, nella “pista libanese” e nelle successive articolazioni del depistaggio internazionale, si prospetta il coinvolgimento (del tutto infondato), assieme a neonazisti francesi e tedeschi, di figure di spicco dell’estremismo nostrano. L’arte della mistificazione tocca l’apice nella finta collaborazione, a partire dal 1982, del faccendiere Elio Ciolini, con i fantasmagorici racconti in cui alla P2 subentra una potentissima loggia di Montecarlo: l’impatto sull’inchiesta fu devastante. Il culmine fu la nota “valigia del depistaggio”, fatta ritrovare dal Sismi sul treno Taranto-Milano il 13 gennaio 1981, piena di armi, esplosivi del tipo impiegato a Bologna e biglietti aerei intestati a presunti terroristi francesi e tedeschi. False prove predisposte ad arte che, oltre a sviare, veicolano messaggi. «Quelle indagini ci fecero perdere ogni residua ingenuità, ci fecero sacrificare ogni innocenza», disse il pubblico ministero Libero Mancuso, approdato a Bologna da Napoli dopo essersi occupato di un’altra vicenda sommamente torbida come il sequestro Cirillo (in cui, non a caso, entrarono anche il SuperSismi e l’ex procuratore capo di Bologna, Ugo Sisti). Fu coinvolto nell’inchiesta dopo che il nucleo originario degli inquirenti si è disgregato per l’impatto devastante dei depistaggi, acuito dal fatto che proprio alcuni dei magistrati facilitarono le interferenze dei servizi. A cominciare dall’allora procuratore Sisti, che fu il primo a sollecitare l’approfondimento immediato della “pista libanese”, in base alle notizie a mezzo stampa propalate dal Sismi (sulle sue “relazioni pericolose” torneremo più avanti). “Covi di Stato” per i Nar Mambro e Fioravanti si sono sempre descritti come combattenti impegnati in una lotta contro il sistema, senza collusioni. Sono stati del tutto reticenti riguardo ai rapporti con la vecchia guardia del terrorismo di destra (i cosiddetti “tramoni"), su cui hanno parlato molti camerati, e hanno respinto con sdegno l’accusa di avere rapporti con Gelli e i servizi. Alla luce dei fatti, però, i conti non tornano. E non solo per l’evidenza rappresentata dai depistaggi. Mambro e Fioravanti non hanno mai spiegato le coperture di cui hanno beneficiato; per esempio, come mai Giusva non subì conseguenze dopo aver utilizzato in un’azione alcune bombe a mano rubate in un deposito dell’esercito mentre faceva il servizio militare, sebbene i servizi fossero a conoscenza del furto. All’interno dei Nar, avevano un legame forte con Massimo Carminati e Gilberto Cavallini. Carminati era il collegamento con la Banda della Magliana (ai Nar serviva per riciclare i proventi delle rapine), e questa aveva rapporti torbidi con i servizi segreti. Mentre Cavallini veniva dal Veneto, come uomo di Fachini, all’epoca ancora indagato per la strage di piazza Fontana, il simbolo stesso della collusione tra estrema destra e servizi. Nel corso del processo Cavallini si sono accumulati dati e testimonianze che collegano i giovani dei Nar ai vertici veneti di Ordine Nuovo, a cominciare da Carlo Maria Maggi, il leader veneziano di Ordine Nuovo condannato come organizzatore della strage di Brescia del 1974. La recente perizia sull’esplosivo ha accertato che l’ordigno era composto del tipo di esplosivo che si estraeva dai residuati bellici della seconda guerra mondiale, una pratica comune tra i terroristi di destra, di cui ha parlato anche Fioravanti. Hanno dunque trovato conferma molte dichiarazioni del “pentito nero” Sergio Calore e sotto il profilo storico, rilevano le parti civili, le risultanze tornano a puntare verso un coinvolgimento di Fachini. Nel processo sono emersi inoltre elementi che consolidano un quadro di collusione del Nar Cavallini con l’intelligence. Oltre alle mezze mille lire che potrebbero collegarlo ai depositi di armi di Gladio, dalle sue agendine sono usciti due numeri di telefono di un ufficio in uso a personale dell’Anello, di Adalberto Titta, cioè una rete informativa segreta con funzioni operative coperte e disponibilità di strutture autonome, in stretta relazione con la Presidenza del Consiglio. Le nuove prove implicano anche i suoi fedelissimi camerati: i legali di parte civile hanno infatti portato alla luce nuovi fili che collegano Mambro e Fioravanti ai servizi. A Milano, si appoggiavano a una base in via Washington 27, dove, sin dai tempi del Sifar (l’antenato di Sid e Sismi) aveva sede una società di copertura dei servizi, un appartamento collegabile, di nuovo, all’Anello. Una coincidenza? Gli avvocati hanno scoperto un’altra circostanza stupefacente: nel 1981, i Nar avevano ben due covi in via Gradoli, a Roma. E uno dei due stava al civico 96, nella stessa unità immobiliare in cui aveva vissuto il capo delle Br Mario Moretti durante il sequestro Moro, nel 1978. Un appartamento riconducibile a una società collegata ai servizi segreti. Il “covo di Stato” su cui ha indagato per anni il senatore comunista Sergio Flamigni, il cui poderoso archivio si è rivelato prezioso anche per questa nuova inchiesta. In relazione al covo di via Gradoli è imputato nel nuovo processo Domenico Catracchia, titolare dell’agenzia che amministrava l’immobile, di cui, stando all’atto d’accusa, il Sisde si serviva abitualmente. A questo punto, a Roma si direbbe: spontaneisti de che? La pista palestinese e le connessioni libiche Tra le ipotesi alternative sostenute con maggiore accanimento dagli innocentisti c’è la cosiddetta “pista palestinese”. Balena per la prima volta subito dopo il 2 agosto 1980, in relazione ad Affatigato (l’uomo dei “depistaggi gemelli"): un documento riservato del solito Amos Spiazzi gli attribuiva il ruolo di basista in un traffico d’esplosivi destinato ai palestinesi. Riemerge nel giugno 1981, quando un falangista libico accusa il palestinese Abu Ayad (oggetto dell’intervista che lanciò la “pista libanese") di aver organizzato la strage di Bologna e quella all’Oktoberfest di Monaco (26 settembre 1980), per cui fu condannato un neonazista: chi di depistaggio ferisce, di depistaggio perisce. Dopo la condanna definitiva di Mambro e Fioravanti, la pista palestinese torna in auge grazie alla Commissione Mitrokhin («la più pasticciona ‘agenzia di disinformazione’ che sia mai stata ospitata in un Parlamento», scriveva Giuseppe D’Avanzo), a seguito di presunte rivelazioni del terrorista Carlos, che mettevano in relazione Bologna alla rottura del lodo d’intelligence (noto come “lodo Moro”, perché fu stipulato nel ’73, quando lo statista pugliese era alla Farnesina con Rumor Presidente del Consiglio) con cui si garantiva ai palestinesi libero transito di uomini e armi, purché non compissero attentati sul suolo italiano. Bologna sarebbe stata una ritorsione per l’arresto di un giovane palestinese insieme a Daniele Pifano e altri due membri dell’Autonomia operaia per il trasporto di due missili, nel novembre 1979. A fronte delle insistenze del centrodestra, nel 2005 la Procura di Bologna apre un fascicolo per indagare sul possibile coinvolgimento nella strage del tedesco Thomas Kram, militante di ultrasinistra sospettato di legami con Carlos, presente a Bologna il 2 agosto. L’indagine, accompagnata da grande clamore mediatico, turbò il contemporaneo svolgimento del processo Ciavardini, ma nel 2015 si è conclusa con l’archiviazione. Non era emerso alcun legame tra Kram e Carlos o altri ambienti terroristici. Giuliano Turone, se n’è occupato nel suo libro Italia occulta, e con l’acribia dell’ex giudice istruttore, ha persino fatto ritradurre la corrispondenza tra il giovane tedesco e la ragazza che asseriva di voler incontrare. «Altro che Carlos», conclude, «non c’era proprio nulla. Solo una faccenda da fidanzatini di Peynet!». Nel dispositivo il giudice, sconfinando nel campo della ricerca storica, ha affermato che non c’era nessun lodo d’intelligence. Testimonianze e documenti d’intelligence acquisiti agli atti del processo per la strage di Brescia confermano invece che è esistito. E i servizi italiani espressero davvero preoccupazione per possibili ritorsioni palestinesi (nulla di paragonabile alle avvisaglie di strage nel campo dell’eversione di destra, beninteso). Ma questo non muta il quadro. Indizi di una responsabilità palestinese non ce ne sono e dalla stessa documentazione, ha rilevato il ricercatore Giacomo Pacini in un saggio sul “lodo Moro”, si ricava che, ancora nel 1981, trattative per il rilascio del giovane palestinese erano in essere e il lodo reggeva ancora, il che smentisce l’ipotesi che dietro Bologna possa esserci il Fronte di liberazione della Palestina. L’ipotesi di un coinvolgimento della Libia trova la sua ragione prima nella spaventosa vicinanza tra Ustica e Bologna, che non cessa di suscitare interrogativi. È affiorata sui quotidiani subito dopo la strage, perché l’allora sottosegretario agli Esteri Zamberletti (incaricato di negoziare un trattato con Malta che andava contro gli interessi libici)
sospettava che a far saltare la stazione fosse stato un gruppo di destra assoldato da Gheddafi. L’ipotesi di un coinvolgimento o una committenza libica per Bologna è compatibile col ruolo depistante della P2 e dell’eversione neofascista come manovalanza, dunque non mette in discussione l’esito dei processi (non a caso gli innocentisti concentrano i propri sforzi sulla pista palestinese). I giudici Palermo e Imposimato parlano infatti di forniture d’armi a gruppi di estrema destra come Ordine nuovo, oltre che alle Br e altre formazioni di sinistra. Quanto alla P2, il capo del Sismi Santovito si spese per Gheddafi (come già il suo predecessore al Sid Vito Miceli) e secondo diverse fonti il criminologo Semerari intratteneva rapporti con il regime tripolino. I magistrati romani che si sono occupati di Ustica hanno indagato a lungo sulle possibili connessioni con la strage di Bologna, senza trovare riscontri conclusivi. Non sono emersi dati utili su una eventuale “pista libica” nemmeno dopo il 1986, quando i rapporti Italia-Libia raggiungono il punto di rottura, A rilanciarla, oltre a Zamberletti, sono personaggi come il depistatore nonché “agente d’influenza” Usa Pazienza e, dulcis in fundo, nel 2000, il terrorista nero ed ex collaboratore del Sid Maurizio Tramonte, condannato per la bomba di Brescia, quando – nel tentativo di allontanare da sé l’ergastolo per strage – fa impazzire gli inquirenti bresciani con fiumi di dichiarazioni in cui mescola bugie e verità. Inoltre, non appare convincente nel quadro della ricostruzione storica dei rapporti italo-libici e della condotta del dittatore in quel periodo. Il trattato stipulato dall’Italia con Malta proprio il 2 agosto fu senz’altro un momento di acuta tensione nelle relazioni italo-libiche. Tuttavia, il conflitto si svolse secondo le modalità di una dura schermaglia militar-diplomatica, per sciogliersi al principio di settembre. Da rilevare pure che, sebbene nell’80 i contatti e il sostegno di Gheddafi al terrorismo palestinese e ad altre organizzazioni armate indipendentiste fossero già noti, e il dittatore facesse uso disinvolto e abituale dell’omicidio politico dei dissidenti su suolo straniero (anche in Italia, cosa che fu fonte di altri forti attriti e vergognosi compromessi), Bologna rappresenta qualcosa di qualitativamente diverso. Un’azione sproporzionata, estranea ai suoi repertori d’azione; il massacro dei 271 passeggeri in volo su Lockerbie, per cui il governo libico ammise le proprie responsabilità, avviene solo nel 1988, nel quadro di una conflittualità ben più aspra delle tensioni italo-libiche dell’80. Tra gli “scoop” veri o presunti agitati per confondere le acque in prossimità di questo quarantesimo anniversario ce n’è uno particolarmente raccapricciante. Potremmo intitolarlo “Resti umani non identificati e la vera natura della strage”, parafrasando la pièce del drammaturgo canadese Brad Fraser, e arriva dal processo Cavallini. L’analisi condotta sui pochi resti attribuiti a Maria Fresu, uccisa insieme alla figlioletta di tre anni, Angela (un lembo facciale, una porzione di scalpo e l’osso di una mano furono tutto ciò che si poté restituire allo strazio del padre), in cerca di residui di esplosivo, ha rivelato che l’attribuzione era errata. La difesa dell’imputato ha colto l’occasione per rilanciare con energia la tesi di un’86ma vittima mai identificata, un corpo mai rivendicato perché apparterrebbe alla persona che depositò la bomba in sala d’aspetto. Non sappiamo a chi appartengano quei resti: è una delle tante lacune di questa storia. Ma non è sorprendente. «All’epoca», scrivono i periti, «le ricerche dei corpi non sono state fatte con un criterio moderno»: un eufemismo per il caos che caratterizzò le operazioni di ricerca. Dopo lo scoppio «c’erano pezzi di corpi ovunque e hanno continuato a trovarli nei giorni seguenti», racconta Paolo Bolognesi. Un eventuale cadavere non identificato sarebbe per forza di un terrorista? È azzardato affermarlo con sicurezza. L’ultima perizia ha escluso in modo definitivo la possibilità di un’esplosione accidentale: perché non sarebbe scappato? Prima di rincorrere fantasmi, vale la pena di fare il punto su chi c’era, quella mattina, alla stazione. Di sicuro c’era Sergio Picciafuoco, delinquente comune, pregiudicato, latitante sotto falso nome da dieci anni. Rimase ferito dallo scoppio e resta l’unico frutto della caccia ai presunti attentatori tra vittime e feriti. Era vicino agli ambienti della destra: lo collegano ai Nar e ai servizi dei documenti falsi, prodotti da un falsario di fiducia dell’intelligence; il suo nome compariva inoltre nell’agenda di Gilberto Cavallini. Indagato per strage dal 1983, non ha mai dato una spiegazione credibile della propria presenza in stazione, ma è stato assolto in via definitiva. C’erano Mambro e Fioravanti, anche se non l’hanno mai ammesso. A supporto delle sentenze, nel saggio Tutta un’altra strage, una delle ricostruzioni più serie e documentate della vicenda bolognese, Riccardo Bocca riporta la testimonianza di una donna che li riconobbe nel piazzale antistante la stazione, curiosamente abbigliati da tirolesi. Non volle testimoniare perché aveva paura. Il suo racconto combacia con quello del principale teste d’accusa, il criminale comune Massimo Sparti, a cui Valerio Fioravanti aveva confidato «di essersi travestito da tedesco alla stazione di Bologna, per apparire insospettabile». Il “processo ai mandanti” sarà chiamato infine a stabilire se alla stazione quella mattina c’era anche Paolo Bellini, una figura controversa e a dir poco romanzesca. Nato e cresciuto a Reggio Emilia, legato alla destra di Avanguardia Nazionale, reo confesso per l’omicidio del militante di sinistra Alceste Campanile nel 1975, a lungo latitante in Brasile sotto falso nome, rientra in Italia per acquisire i brevetti da pilota, la sua grande passione, oltre a dedicarsi a fiorenti traffici illegali di mobili antichi e opere d’arte. A coronamento di una vita spericolata diventa killer di ?drangheta, poi, detenuto in carcere con un boss mafioso, sarà tra gli attori di un filone parallelo della trattativa Stato-mafia, e infine diventa collaboratore di giustizia. Già indagato in relazione alla strage, la procura generale ha revocato il suo proscioglimento del 28 aprile 1992 a fronte dell’esibizione di un video amatoriale girato la mattina del due agosto alla stazione, ritrovato all’archivio di Stato dall’avvocato di parte civile Andrea Speranzoni, che ritrae un giovanotto molto simile a lui sulla banchina, poco prima dell’esplosione. Lo ha identificato la sua (oggi) ex moglie che, nuovamente interrogata dai magistrati, ha modificato la propria testimonianza facendo crollare il suo vecchio alibi, un viaggio con la famiglia. «Ci ha usati», pare abbia detto la donna in un’intercettazione. Ad aggravare la posizione di Bellini ci sono i rapporti documentati con Picciafuoco, a cui si rivolse, ancora nel 1990, in una situazione di emergenza, quando diedero fuoco all’auto della moglie, con modalità che facevano pensare alla minaccia o all’avvertimento. Ancor più interessante, in un’intercettazione ambientale del gennaio 1996, Carlo Maria Maggi conferma al figlio che la strage «l’hanno fatta loro», riferendosi ai Nar di Fioravanti, e che «nei nostri ambienti... erano in contatto con il padre di ‘sto aviere... e dicono che portava una bomba». L’"aviere” Paolo ha raccontato che suo padre, Aldo Bellini, voleva spingerlo a collaborare con i servizi (lui sostiene di aver rifiutato). Uomo di destra, era un vecchio amico del procuratore Sisti (quello che si appassionò subito alla “pista internazionale"), al punto che la polizia, eseguendo una perquisizione nell’hotel di Bellini senior subito dopo il 2 agosto, con grande imbarazzo vi trovò il capo della procura. Risulta che Sisti ebbe contatti sia col padre che col figlio. Il processo ai mandanti, insomma, si preannuncia complesso ma davvero interessante. Perché la strage del 2 agosto? Dopo tanti processi e inchieste, alla soglia della domanda più assillante, il bosco resta una selva oscura. Il documento Linea politica invocava «un’esplosione da cui non escano che fantasmi», e da Bologna, purtroppo, continuano a uscirne. Il perché di Bologna resta un buco nero. Non rivendicate, mai spiegate dai loro autori, spesso ignoti, tutte le stragi terroristiche mantengono una parte d’oscurità, più o meno grande. Sono emersi molti tratti comuni agli attentati tra 1969 e ’80: la manovalanza di destra e l’azione dei servizi segreti, con impressionanti linee di continuità in termini di persone e apparati, gli addentellati con le strutture paramilitari segrete della Guerra fredda. Ma se risulta ormai chiaro e condiviso che lo scopo principale di piazza Fontana, nel ’69, era arrestare lo «scivolamento a sinistra» dell’asse politico, criminalizzando “rossi” e anarchici, per Bologna il quadro è assai più confuso: nell’80 il Pci è definitivamente escluso dall’area di governo, il contesto, interno e internazionale, è cambiato. «Destabilizzare per stabilizzare» può voler dire tante cose. I processi e la storia ci insegnano che nelle stragi confluiscono intenzioni diverse e non coincidenti. I motivi degli esecutori, quelli di chi copre e depista, quelli di chi dirige o strumentalizza politicamente gli uni e gli altri. «Sono dei crocevia le stragi, dei momenti in cui si vanno a scontrare tante realtà diverse che operano chi in un senso chi nell’altro», spiegava l’ex terrorista di Ordine nero, Fabrizio Zani. Nel 1980 erano in molti ad avere interesse a mettere pressione sull’Italia, dentro e fuori dai confini nazionali. «La strage avrebbe provocato indagini, perquisizioni, arresti», spiega Cinzia Venturoli, «spingendo molti giovani a entrare in clandestinità e a unirsi alle organizzazioni terroristiche come i Nar, e questo è, probabilmente, un altro effetto che si voleva ottenere»: un mezzo di imporre la propria egemonia. Quanto ai cittadini, Bologna mette una pietra sopra agli aspetti più vitali degli anni Settanta e li lascia esausti: i depistaggi, infatti, prolungano, estendono e amplificano l’impatto destabilizzante della strage. Le forme di potere e di controllo occulto prosperano nella confusione, nel distacco cinico, nel disimpegno dei cittadini. Depotenziare le istanze civili, svuotare la democrazia dall’interno: obiettivi congrui al “Piano di rinascita democratica” perseguito dalla P2 a partire dal 1976. «Dietro alle stragi possiamo vedere un patto di potere criminale fra neofascisti e uomini delle istituzioni», riflette l’avvocato di parte civile Speranzoni, «c’era un progetto finalizzato a ridisegnare l’Italia sul piano sociale ed economico che ebbe inizio nel 1978 e culminò il 2 agosto». Rispetto al movente dei mandanti, aggiunge, «è significativo che il denaro per finanziare la strage del 2 agosto venisse dall’Ambrosiano, in quel momento immerso in gravi difficoltà giudiziarie. Denaro utilizzato, a questo fine, all’insaputa di Roberto Calvi». E si torna al processo ai mandanti, che molto dovrà occuparsi de lla loggia di Gelli. La chiave è lì.