La Lettura, 1 agosto 2020
Calvino fa poco fumo ma parecchio Ariosto
Le cose più belle su Italo Calvino me le disse Maurizio Corgnati, il pigmalione di Milva (ma fu molto, molto di più). Capitai a casa sua, a Maglione Canavese, con finestre vista Monte Rosa, seguendo il caso di un Gerard Damiano locale, un regista di porno casalinghi con protagonisti la giovane, bella moglie e (caritatevolmente) un amico rimasto prematuramente vedovo. Forse non era proprio una storia alla Calvino, ma era una bella storia. Corgnati mi disse che il suo Calvino era quello ariostesco (Il barone rampante, in classifica pure lui), non l’altro, smarritosi nel labirinto strutturalista. Non parlammo di Il sentiero dei nidi di ragno, l’esordio romanzesco dello scrittore, ancora nella classifica dei bestseller a 73 anni dalla pubblicazione. Probabilmente gli piaceva perché c’era già il profumo di Ariosto (non c’è profumo senza Ariosto nella letteratura) che già cuoceva nella cucina calviniana. Scrivendo Il sentiero, Calvino pensava a Per chi suona la campana di Hemingway e L’isola del tesoro di Stevenson (un cocktail di classe). E lo scrisse come una duplice sfida («ai detrattori della Resistenza» e «ai sacerdoti di una Resistenza agiografica ed edulcorata»), dimostrando che aveva già capito tutto a 24 anni e rendendo risibili le polemiche dei posteri. La storia di Pin, il partigiano ragazzino, regge ancora (non il capitolo politico, un balzello dell’epoca). Così come regge il personaggio della sorella di Pin, «la Nera di Carrugio Lungo», che va a letto con tedeschi, brigate nere e partigiani, senza alzarsi mai dal suo giaciglio. La Nera è una dea minore dell’amore (come la moglie del regista di Maglione). Calvino era uno scrittore d’amore e non lo sapeva (vedi le sue appassionate e mai pubblicate lettere all’attrice Elsa de’ Giorgi: «Tu sei un’eroina di Ibsen, io mi credevo un uomo di Cechov. Ma non è vero, non è vero»). La sua prosa resta la più limpida della sua generazione. Leggerlo è sempre un piacere. È uno senza data di scadenza.