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 2020  agosto 01 Sabato calendario

Orsi & tori

Finalmente il Congresso americano si è ricordato che gli Usa sono (erano) la patria delle leggi antitrust per garantire la pluralità degli operatori nel mercato. Ma purtroppo a muovere il Sottocomitato antitrust della Commissione giustizia della Camera è stata solo l’imminenza delle elezioni di novembre, quindi una questione di lotta politica. Il comitato guidato dal democratico David Cicelline ha raccolto più di 1,3 milioni di documenti che mettono sotto accusa Jeff Bezos di Amazon, Tim Cook di Apple, Mark Zuckerberg di Facebook e il debuttante Sundar Pichai, ceo di Google. Tutti e quattro hanno giurato di dire la verità, nell’audizione di mercoledì 29, ma soprattutto, dopo il giuramento, si sono impegnati, per difendersi a dire di incarnare con il loro successo il sogno americano (Bezos ha ricordato che il padre adottivo era cubano...), di essere così campioni del mondo per l’America e che non è detto, a mo’ quasi di minaccia, che il primato tecnologico americano non possa cambiare (evidentemente senza di loro o con loro più deboli). Ma anche se il loro potere è riconducibile essenzialmente alla protezione del Partito democratico avuta prima dal presidente Bill Clinton e poi dal presidente Barack Obama, il presidente democratico della Sottocommissione Cicelline non ha esitato a lanciare l’atto d’accusa: «La concentrazione di potere delle vostre piattaforme è incompatibile con il nostro ideale di democrazia. Già eravate colossi dell’economia. Con la pandemia emergete più potenti di prima». E per una volta, apparentemente, democratici e repubblicani si trovano d’accordo perché con tempestività il presidente spara cannonate. Donald Trump ha fatto sapere: «Se il congresso non regolerà Big Tech, ci penso io a colpi di ordini esecutivi».Basterebbero queste frasi per far capire che l’America si trova a una svolta drammatica. Era l’esempio per il mondo grazie alle sue due democrazie, quella politica con l’alternanza del potere ogni 4 anni e massimo per 8, e con la garanzia, grazie alla legge Antitrust in vigore fin dalla fine del 1800, della pluralità e della concorrenza nel mercato, quindi della democrazia economica. Oggi, per il tentativo perseguito dai due ultimi presidenti democratici, ma anche tutto sommato dal repubblicano George W Bush, di avere il primato nella tecnologia, la politica è minacciata proprio da quel potere, fino a mettere in dubbio la democrazia politica, per esempio per le reazioni inconsulte di Trump.
Come tutto ciò è potuto avvenire? Quali sono le cause di fondo di una tale involuzione? Può l’America recuperare l’antico equilibrio in politica e nel mercato? Potranno gli Usa continuare a essere il guardiano del mondo? E i quattro padroni dell’America e di larga parte del mondo, con un valore di 5 mila miliardi di euro, riusciranno a conservare il loro potere e il loro mercato, o saranno messi alle corde dal balzo gigantesco della tecnologia cinese?
Lamberto Dini, ex Fmi, ex direttore generale di Bankitalia, ex ministro del Tesoro, degli Esteri ed ex presidente del Consiglio conosce gli Usa e il sistema economico e poetico mondiale come pochi.
Lamberto, cosa ne pensi?
«Penso, con grande preoccupazione, al futuro dell’America ma anche al nostro, essendo l’Europa e l’Italia parte del sistema occidentale, anzi senza l’Europa non c’è mondo occidentale. E Trump ha sparato sia sull’Europa che sugli altri alleati. Gli errori enormi commessi dal presidente Trump mettono a rischio il mondo che negli ultimi secoli ha espresso la migliore civiltà. Oggi l’America si sta trovando sola, quali alleati convinti ha? Forse il Giappone e l’Australia. Perché le crisi dell’America sono tre: 1) quella sanitaria che il presidente Trump non ha assolutamente saputo gestire; 2) la crisi economica, come conseguenza di questa incapacità e l’emergere di 17-20 milioni di disoccupati, nonostante l’immissione dalle casse dello Stato di ben 2 mila miliardi di dollari di aiuti: senza ripresa la disoccupazione non può diminuire; 3) come conseguenza delle prime due, ma ancor più per gli errori dell’amministrazione, la crisi sociale e connessa razziale. Questa crisi non è uno scherzo. Per George Floyd ogni sabato, ogni giorno manifestano non solo i neri e ispanici, ma enormi folle anche di bianchi e di persone che capiscono il disastro creato da questa amministrazione. Una serie di dichiarazioni che fanno rivoltare anche i più conservatori».
La decadenza dell’America è inarrestabile?
«Non penso questo. Le istituzioni Congresso e Corte Suprema tengono e il principio cardine Check and balance per due terzi funziona ancora bene. Lo dimostra la convocazione degli Ott da parte della sottocommissione antitrust. I guai, diventati drammatici nel contesto della crisi Covid, nascono dalla presidenza, dai pronunciamenti assurdi, come quello del rinvio delle elezioni appena richiesto, dal cambiamento continuo di uomini chiave, come il capo della Cia, il segretario di Stato, il ministro degli Esteri. Quindi con una molto probabile (o certa) sconfitta di Trump alle prossime elezioni, e il probabile arrivo alla Casa Bianca del democratico Joe Biden, il sistema potrebbe ricominciare a funzionare».
Ma Biden secondo te ha le qualità che servono?
«Biden è un uomo che sa convincere. Del resto Ronald Reagan era un attore. Si era preparato facendo il governatore della California, ma la sua capacità è stata quella di sapersi circondare di uomini capaci e di rispettarli. Biden dovrà fare lo stesso, se vorrà risollevare l’America. Dipenderà anche dalla scelta della vicepresidente donna. Sono dieci le candidate. Sceglierà una donna nera? Sarebbe una buona mossa. In passato l’America ha sempre saputo risollevarsi. Questa volta sarà più difficile. Comunque non più leader assoluto del mondo perché la Cina è già oggi la seconda potenza mondiale, fortissima nella tecnologia e ormai non contano più gli eserciti, ma la nuova tecnologia».
Concordo con te che sulla tecnologia, nonostante i quattro dominatori, la Cina marcia a una velocità doppia..
«È vero, è vero, basta ricordare che Huawei, per il 5G, aveva dato ogni disponibilità perché si elaborassero protocolli di sicurezza decisi dall’amministrazione americana. Il rifiuto è segno di debolezza oltre che tentativo di limitare il giro d’affari di Huawei, ufficialmente perché azienda di Stato. Rimane che l’America è il Paese con più alto capitale, che serve per investire e quindi far sviluppare l’economia. Ma nessun presidente degli Stati Uniti può imporre un piano di investimenti ai privati, mentre in Cina il governo, combinando ideologia socialista con strumenti capitalistici, riesce a decidere come sviluppare l’economia. Prova ne sia che il secondo semestre cinese ha già un segno positivo di crescita del pil, anche se dimezzato rispetto al passato. Ma per il momento in Usa resta anche il rischio politico e strategico. Si prenda l’annuncio di voler trasferire 12 mila militari dalla Germania. La cancelliera Angela Merkel non se l’è mai detta tanto con Trump, ma questo è un altro autogol. Infatti, chi può godere di questo trasferimento? Ovviamente la Russia, che proprio per causa di Trump è diventata alleata della Cina, dopo secoli di inimicizia assoluta».
Pensi che con l’Europa gli Usa potranno recuperare un rapporto pieno se Trump sarà sconfitto?
«Certo. C’è. Da augurarsi che il successore non programmi, come Trump, di mettere una tassa del 25% sulle auto europee. Una scelta che equivale a distruggere l’industria automobilistica europea, i cui margini sono ormai limitatissimi».
Quali sono le tue previsioni economiche sull’America e sul resto del mondo?
«Gli Usa non usciranno dal Covid per molti mesi ancora. Se ne riparlerà l’anno prossimo, visto che Trump ha chiuso intempestivamente e riaperto troppo presto. A meno che il vaccino arrivi presto. Con elezioni che scelgano una persona equilibrata, l’economia americana, che è forte, potrà riprendere a crescere, anche se l’ultimo risultato del pil è pesantissimo con oltre il 30% di perdita sull’anno scorso. Se riprenderà l’economia americana, anche l’Europa e l’Italia in particolare ne trarranno giovamento».
Quando ci siamo sentiti giorni fa per questo dialogo, mi hai accennato al problema enorme della concentrazione della ricchezza e quindi del fortissimo aggravamento delle disuguaglianze...
«Proprio così, 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone. È l’aspetto negativo della globalizzazione. I politici non si sono accorti che sì, alcuni Paesi in via di sviluppo hanno migliorato la loro condizione, ma che nel complesso crescevano le disuguaglianze, non corretta da una tempestiva ed efficace politica fiscale. Ci vuole un nuovo capitalismo che corregga queste gravissime distorsioni. Il fenomeno negativo ha colpito anche la classe media americana, che non può più mandare i figli al college se non dispone di 70-80 mila dollari. Un asilo privato a New York può costare anche 40 mila dollari l’anno. In Italia e in genere in Europa non ci si rende conto di questa situazione perché è lo Stato soprattutto a garantire l’istruzione. Quindi anche l’America dovrà ripensare al ruolo della mano pubblica almeno sui servizi essenziali per un cittadino».
Quando sei arrivato in Italia dal Fondo monetario internazionale, ti chiamavano Lambertow l’americano...
«L’America è stato un Paese straordinario fino a quando non è stato deciso di rendere di uso civile internet nella convinzione di aumentare il potere del Paese. Non erano stati fatti i conti giusti sulle potenzialità della Cina e le amministrazioni non si sono accorti che internet distribuiva la tecnologia nel mondo. Poi, con la globalizzazione si sono fatti produrre i cellulari alla Cina, anche quelli sofisticati di Apple. Oggi la Cina è in grado di poter fare a meno dei sistemi Ios e Android... Sì, in Europa ci sono Ericsson e Nokia, ma i loro prodotti costano molto di più. E in Italia la situazione è ancora peggiore perché non c’è un’azienda di una certa dimensione che produca cellulari, computer o sistemi di rete. C’era l’Olivetti... Quindi l’Italia deve per forza mettere a frutto bene i 200 miliardi europei. La tecnologia consente di avere efficienza e quindi economia produttiva. Il Paese deve fare un salto enorme di digitalizzazione. Ci vogliono grandi capitali. Occorre operare perché un grande operatore di tecnologia si installi in Italia. Altrimenti ci sarà una moria di pmi».
Ma le scelte di fare debito ti paiono giuste?
«Tutto il mondo occidentale ha deciso di fare debito. Che è l’unico sistema per rilanciare l’economia. È sufficiente? È difficile dirlo. Ora siamo nel mezzo della povertà. Ma ma bisogna rilanciare gli investimenti che sono l’unico strumento per creare sviluppo. Per l’Italia non è facile neppure attrarre capitali per la questione fisco, la questione mafia, la questione amministrazione pubblica peggio di una lumaca, e non ultima l’incerta giustizia. Ma non si può mollare».
Ha senso avvicinarsi ancora di più alla Cina?
«Sicuro, ma con equilibrio. Ci vogliono persone affidabili che da una parte sappiano mantenere gli impegni occidentali e dall’altra trarre tutti i vantaggi possibili dal gigante Cina. In passato l’Italia ha fatto più scelte autonome: i rapporti con l’Iran, con la Russia, con il Medio Oriente... Ma occorre essere credibili e affidabili. Non sarà stato un caso che quando nel 2000 ero ministro degli Esteri, fui incaricato proprio dagli Usa e dalla Corea del Sud di andare in missione nella Corea del Nord. Se si è affidabili, si può sviluppare il commercio con la Cina e convincere la Cina a fare investimenti green field che producano posti di lavoro. Tanto la globalizzazione, con le aziende che attraverso la supplay chain ricevono parti da assemblare anche da cinque stabilimenti in Paesi diversi, è destinata a finire. Al posto della globalizzazione ci saranno zone di influenza e bisogna scegliere di sviluppare rapporti con chi dà più garanzie per lo sviluppo. Se sarà Biden a vincere, com’è quasi certo, non che l’America ceda il passo, ma nell’interesse comune si punterà sullo sviluppo, e operazioni come quella di minacciare il trasferimento di 12 mila militari dalla posizione strategica della Germania verso la Russia, non saranno neppure pensate, non annunciate».
Grazie Lambertow.