La Stampa, 1 agosto 2020
Intervista all’attore Álvaro Morte
Nella voce di Álvaro Morte - classe ’75, attore, spagnolo; prossimamente protagonista della quinta e ultima parte de La casa di carta di Netflix - c’è sempre un sorriso in agguato: si capisce da come inspira, dalle pause che prende e dalla curva morbida che seguono le parole. Si ferma, assapora le ultime consonanti, e poi ricomincia a parlare. Dice: «L’Italia è nel mio cuore, nei mesi difficili vi ho pensato molto ». E gli credi. Il suo inglese è leggero e musicale, pieno di piccole sfumature. Racconta il passato come fosse il presente e il presente come se dovesse ancora avvenire.
«Il primo a parlarmi di The Head (dal 5 agosto su Amazon Prime Video) è stato Jorge Dorato, il regista. Avevamo già lavorato insieme a Il molo rosso, e con il tempo siamo diventati amici». Prende un’altra delle sue pause, e poi continua. «Eravamo a cena con le nostre famiglie quando mi ha raccontato la trama; ha descritto The Head come una storia di Agatha Christie, e mi ha detto: dovresti proprio interpretare uno dei personaggi. All’epoca, però, stavo girando la quarta stagione de La casa di carta, per Netflix, e sembrava impossibile».
Ma ha fatto di tutto per riuscirci. Perché?
«C’è qualcosa di veramente unico in questa serie. Innanzitutto la dimensione in cui si svolge il racconto. Siamo in Antartide, in una stazione isolata, e non c’è nessuna via di fuga. I personaggi sono intrappolati. E quelli che fino a poco prima erano amici, vengono improvvisamente sospettati di omicidio».
Cosa cerca in un nuovo progetto?
«La prima cosa a cui presto attenzione è la sceneggiatura. Quando mi viene mandato un nuovo copione, mi faccio sempre la stessa domanda. E cioè: che cosa posso dare al personaggio, e che cosa il personaggio può dare a me?».
E cosa si risponde?
«Non mi interessa interpretare ruoli simili. Il personaggio di The Head è diverso dal personaggio de Il molo rosso, così com’è diverso dal Professore de La casa di carta. Ed è questa la cosa fondamentale».
Stiamo già vivendo il futuro?
«Non penso che le serie tv siano il futuro, penso che siano il presente. In questo momento, ne stiamo producendo e guardando moltissime. Fino a qualche anno fa, il piccolo schermo veniva visto come una cosa volgare, commerciale e troppo popolare. Oggi no: film e serie tv sono sullo stesso livello».
Vede dei rischi in questo?
«Dobbiamo essere furbi. Dobbiamo imparare a non esagerare e a capire come far durare questo periodo il più a lungo possibile. Abbiamo l’occasione di creare un sistema solido, migliore, qualcosa di cui tutti possiamo beneficiare».
A lei è andata piuttosto bene.
«Quando abbiamo girato la prima stagione de La casa di carta, ci trovavamo all’inizio di quest’epoca d’oro. Tutto quello che volevamo era fare qualcosa di diverso per il mercato spagnolo, qualcosa di veramente appassionante. Con l’arrivo delle piattaforme streaming, La casa di carta è diventato un fenomeno globale e ora ricevo continuamente telefonate e proposte. Ma è solo una faccia della medaglia».
L’altra qual è?
«Ci sono tantissimi attori che non sono stati scelti per una serie o per un film, tantissimi attori che sono costretti a fare più lavori per mantenersi. Io mi trovo in una posizione privilegiata, da cui è facile parlare. E ne sono consapevole. Provo sempre a non dimenticare da dove vengo».
Facciamo un passo indietro.
«Stavo studiando ingegneria delle telecomunicazioni; vivevo alle Canarie. Mio padre non voleva altro per me: mi vedeva come un professionista, un laureato. Quando lui era giovane, non ha avuto la possibilità di studiare. Voleva il meglio per me e per mio fratello».
Però?
«In quel periodo entrai in contatto con una compagnia teatrale. Stavano cercando dei musicisti. E io e altri miei amici ci proponemmo. Lasciai ingegneria, e mi trasferii nel sud della Spagna per cominciare a studiare recitazione. Da quel momento, non mi sono più fermato».
È stato un colpo di fulmine.
«Ho cominciato a conoscere il teatro e il mondo dello spettacolo quando ero poco più che un ragazzo, e me ne sono innamorato. La sinergia che si instaura tra pubblico e attori è la cosa che mi colpisce di più ogni volta».
Che controindicazioni ha il successo?
«Pensare alle persone che ti guardano, a quelle che sono a casa, ai tuoi fan, può rischiare di farti impazzire; è importante riuscire a non farsi sommergere dai sentimenti e dalle aspettative».
Si sente responsabile?
«Non come attore, ma nei confronti di chi mi segue sì: sento una certa responsabilità. Soprattutto perché molti dei nostri fan sono giovanissimi. Non voglio dare il cattivo esempio».
Che cosa conta per lei?
«È importante poter diversificare, poter vivere esperienze differenti e interpretare più ruoli. Non voglio che le persone, vedendomi in una serie, pensino immediatamente al Professore. Non devo, e non posso, essere identificato solo con quel ruolo».
Che cosa significa, alla fine, essere un attore?
«Ho una regola: non dire mai bugie. O almeno, provarci. Recitare, per me, è l’unico momento in cui posso permettermi di mentire. E se recitando riesco a creare un contatto con gli spettatori, se riesco a trasformare una bugia in verità, allora ottengo la cosa più difficile e più incredibile che ci sia, e faccio bene il mio lavoro».