Robinson, 1 agosto 2020
L’antropologo Aveni spiega perché gli astri ci influenzano ancora
Siamo figli delle stelle. Anzi no. Lo eravamo in tempi lontani, ma adesso il cielo ha smesso di parlarci, indispettito dalla nostra ignoranza siderale. A stento distinguiamo le vaghe stelle dell’Orsa. E riconosciamo lo stellone della sera, Venere, per i Greci Espero, solo perché è così lucente che è impossibile confonderla con un’altra. Soprattutto per noi italiani, visto che è uno dei simboli originari del Belpaese, il cui antico nome era proprio Esperia.
Eppure, per millenni, la volta istoriata della notte ha rappresentato una mappa indispensabile per orientarsi nei labirinti del cosmo e del destino, una cartografia del passato e del futuro, uno specchio delle corrispondenze ed influenze, attrazioni e congiunzioni, mozioni ed emozioni che condizionano l’esistenza di noi sublunari. Ce lo ricorda Anthony Aveni, professore emerito di Astronomia culturale e di antropologia alla Colgate University di Hamilton, New York, in un delizioso libro intitolato Stelle. Il grande racconto delle costellazioni (Il Saggiatore).
In realtà gli astri sono così presenti nella nostra vita che influiscono anche sul nostro parlare comune. Molti dei vocaboli che hanno a che fare con la conoscenza, il calcolo, le passioni, hanno origine proprio dall’osservazione del firmamento. Lo dicono parole come “considerazione”, che deriva da cum e sidera e significa guardare l’insieme delle costellazioni. O come “desiderare”, che significa letteralmente volgere cupidamente lo sguardo verso qualcosa o qualcuno che ci attrae come una stella. O ancora, il meno piacevole “assiderare”, stare fermi all’aperto con la notte come tetto.
Per i nostri progenitori il mondo di quaggiù si spiegava alla luce di quello di lassù. Come sopra così sotto, diceva il grande astronomo egiziano Tolomeo, che riecheggia nel «come in cielo così in terra» del Padre nostro.
Ogni corpo celeste, ogni nebulosa, ogni cometa aveva una storia, un mito, una leggenda, un’identità, un atto di nascita, che tutti conoscevano. Ad esempio, Orione per i Greci era un cacciatore infallibile. Non a caso occupa una posizione di primo piano nel cielo a fine autunno, che tradizionalmente coincideva con la stagione della caccia. Ma era anche un tombeur de femmes, tanto esuberante da diventare un molestatore. E per questo punito dalla casta diva Artemide che lo fa pungere a morte da uno scorpione. Per questo si credeva che nel cielo notturno Orione si fosse rifugiato sul lato opposto rispetto a quello dello Scorpione. Tra le donne stalkerate dal Weinstein empireo c’erano le Pleiadi, le bellissime figlie del Titano Atlante, trasformate in stelle per proteggerle dalle attenzioni del mandrillo uranico. E onnipresenti nell’immaginario degli umani, dalla letteratura alla pittura, dalla mitologia alla poesia, dalla teologia all’economia, forse per la loro importanza di segnalatori dell’alternanza stagionale. I contadini della Ande, esperti osservatori di segni siderei, sanno che non bisogna seminare se le sette sorelle appaiono opache, mentre annunciano tempo favorevole e buon raccolto quando sono splendenti. Il bello è che, secondo gli scienziati, questa osservazione empirica funziona benissimo per prevedere le fluttuazioni di El Niño, la corrente calda apportatrice di siccità e temutissima dagli agricoltori e pescatori del Pacifico.
«Le sette Pleiadi estatiche in cielo, altre sette ne accendono nelle acque più profonde», recita luminosamente un verso di Edgar Allan Poe che coglie l’arcana corrispondenza fra il mondo terreno e quello celeste. La stessa che ha fatto di queste stelle fra le stelle, il logo di una multinazionale dell’auto come la Subaru, che in giapponese significa appunto Pleiadi. E se i Caribe associavano questa costellazione alle viscere di un personaggio mitico sparse per il cielo, nella Turchia medievale ci vedevano una compagnia di guerrieri pronti a lanciarsi in battaglia.
Pagina dopo pagina, Aveni ricostruisce le cartografie e le ideologie astrali di quei popoli che riflettevano nei pianeti le loro idee sui caratteri degli uomini. Come i cinesi, che facevano del loro zodiaco, una sorta di scenografia morale con le bestie come modello celeste degli umani. Il serpente furbo, il cane fedele, il maiale pigro, il topo infido, il dragone buono.
Di fatto, l’immutabile ripetersi di rotazioni e rivoluzioni dei corpi eterei, eternamente volteggianti nel loro corso immortale, è sempre stato considerato un paradigma di ordine e di prevedibilità. Prima in termini magici, poetici, religiosi, augurali. E poi in termini matematici e geometrici, da quando Galilei e Copernico, Keplero e Newton, proprio attraverso l’osservazione delle meccaniche celesti, inventano la scienza moderna. Noi, disincantati più che illuminati, ormai, usciamo a riveder le stelle giusto la notte di San Lorenzo. Ma solo per guardarle cadere. Ecco perché il cielo ha interrotto le comunicazioni con noi. E i suoi messaggi li affida al meteo.