Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  agosto 01 Sabato calendario

Sia lodato San Rocco, virologo di Dio

Le preghiere salgono, le statue di san Rocco scendono. Per stare vicine ai cittadini che chiedono di fermare il coronavirus. In tutte le chiese del nostro Paese sono tornate a risuonare le invocazioni a Rocco, il signore delle epidemie. Il virologo di Dio. Che sin dal Medioevo è il nemico di virus e batteri. Ieri la peste nera, oggi il Covid, la peste del ventunesimo secolo.
In realtà il culto di questo santo medico cresce e ricresce nel tempo. Come se avesse lo stesso andamento dei contagi di cui, nell’immaginario popolare, è l’antidoto ultraterreno. Questo dottore soprannaturale, infatti, è veneratissimo fra Quattrocento e Seicento, quando le ondate successive di peste ammorbano l’Europa, mentre la sua popolarità va scemando nel Settecento, per poi tornare prepotentemente sulla scena della devozione nel secolo successivo, come presidio sanitario contro il colera che fa strage un po’ ovunque. È il destino altalenante dei grandi taumaturghi, i guaritori divini che aiutano i credenti, e qualche volta anche i non credenti, a non farsi travolgere dal male, a sperare l’insperabile, a scongiurare il naufragio dell’essere. In realtà, nei miracoli, di cui i santi sono i grandi elargitori, si riflettono in filigrana i bisogni degli uomini, primo fra tutti la salute, ma anche le loro paure, prima fra tutte la malattia. In realtà la ragione più profonda della popolarità di questi campioni della fede sta in una sorta di counseling celeste, di placebo esistenziale, di sostegno psicologico. Che aiuta a vedere la luce nel più fitto nero della vita. Proprio così Tintoretto raffigura san Rocco che risana gli appestati, nel grandioso telero veneziano dipinto per la Scuola Grande di san Rocco. Nella tenebra di un ospedale, «pieno di letti e d’infermi in varie attitudini» come scrive Giorgio Vasari, dalla testa aureolata del santo irradia il lampo della salvezza che illumina l’intera scena. E questo corto circuito fra grazia e guarigione, fra santità e sanità è alla base di un welfare del cielo che ha nei grandi taumaturghi i suoi potenti luminari, i suoi provvidenziali primari.
In effetti, tutta la vita di Rocco si svolge nel segno della medicina. Da quando, nei primi anni del Trecento, parte dalla natia Montpellier per andare in pellegrinaggio a Roma e si ferma ad Acquapendente, dove infuria la peste. Lì avviene il suo debutto in corsia dove cura i malati con il segno della croce. Sarà per una ragione nascosta, sarà per un semplice scherzo del destino, ma da allora il piccolo paese del viterbese diventa una sorta di hub della clinica. Legato a doppio filo al nome di Fabrizio d’Aquapendente, gloria cinquecentesca dell’Università di Padova, allievo di Gabriele Falloppio, maestro di Andrea Vesalio e padre dell’anatomia moderna.
Una volta tornato in Francia, il santo viene a sapere che Piacenza è martoriata da una pestilenza, proprio come adesso lo è stata dal Covid. Parte senza indugi per la città emiliana dove contrae la malattia. Allora decide di ritirarsi in una capanna isolata a Sarmato, vicino al fiume Trebbia e impedisce a chiunqu e di fargli visita, per non estendere l’infezione. Di fatto, questa autoreclusione rigorosa e altruistica è la madre di tutti i lockdown, un modello di profilassi al tempo stesso sanitaria e umanitaria. Ma la provvidenza corre in suo aiuto. A quattro zampe. Perché un cane scopre il nascondiglio del santo appestato e comincia a prendersi cura di lui portandogli del cibo che sottrae furtivamente alla mensa del padrone, il nobile Gottardo Pollastrelli, signore del luogo. Che accortosi dello strano comportamento dell’animale, lo segue e scopre la toccante verità. Rocco lo scongiura di allontanarsi e di abbandonarlo al suo destino, ma ogni preghiera è vana. Gottardo compie fino in fondo la sua opera di misericordia e assiste l’ammalato fino alla completa guarigione.
Il divino infettivologo muore intorno al 1330. Leggenda vuole che alla sua morte sotto la testa venga ritrovata una tavoletta con la scritta «Coloro che colpiti dalla peste ricorreranno all’intercessione del Beato Rocco, prediletto da Dio, ne saranno immediatamente liberati». Da allora la sua fama taumaturgica ne ha fatto uno dei santi più popolari. Uno dei focolai più accesi della sua devozione si trova a Tolve in provincia di Potenza. Ed è grazie a questa protezione ravvicinata che la Basilicata è la regione meno colpita dal Covid. Almeno secondo i fans di Rocco che vedono dietro le statistiche la mano invisibile del santo.
Il suo manto patronale si estende su molti altri comuni e frazioni che portano il suo nome, ben novantacinque solo nel Mezzogiorno. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, al tempo della migrazione interna dal Sud contadino verso il Nord industriale, il nome Rocco diventa addirittura un emblema identitario, il simbolo di una meridionalità dell’essere, come nel capolavoro di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli.
Alla faccia della secolarizzazione, le immagini del santo si trovano tuttora disseminate in tutta Europa, come baluardi contro ogni sorta di epidemia, dalla lebbra al tifo, dalla Sars all’Hiv. E lo rappresentano di solito in abito da pellegrino, con il corpo punteggiato dai bubboni pestilenziali e al suo fianco il fedelissimo cane, che gli lecca amorevolmente una piaga.
Ancora oggi i santuari a lui dedicati sono degli autentici convertitori di energia sacra in energia psichica, degli switch fra salvezza dell’anima e salute del corpo. Come quello di Torrepaduli in Salento, dove tradizionalmente ogni 16 agosto in occasione della festa del santo i malati passavano la notte sotto la statua del guaritore, perpetuando il rituale precristiano dell’incubatio, che consisteva nel dormire dentro la chiesa in attesa che il nume apparisse in sogno, con diagnosi e cura. Oggi l’uso è stato interdetto dalle autorità ecclesiastiche, ma i devoti imperterriti fanno la veglia notturna nello spazio immediatamente circostante. Qualcuno dorme addossato ai muri del sacro luogo, come per assorbirne direttamente il principio attivo. Per farsi attraversare da quella corrente vitale, numinosa e luminosa, da quel bios potente ed eccedente cui diamo nomi come grazia. O miracolo. Ma chiamale, se vuoi, suggestioni.