Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2020
Trump vuole una Nato asiatica per arginare Pechino
«Rafforziamo il nostro impegno per la regione Indo-Pacifica per un ordine basato su regole internazionali». Con una laconica nota l’ammiraglio Jim Kirk, comandante della portaerei Nimitz, qualche settimana fa annunciava l’avvio di esercitazioni militari nel Mar Cinese Meridionale, assieme alla portaerei Ronald Reagan e relativi gruppi di combattimento. Una delle più grandi dimostrazioni di potenza navale americana degli ultimi anni.
Prove di guerra. In risposta alla Cina che dal primo al 5 luglio ha effettuato esercitazioni anfibie nelle acque attorno alle Paracel: 130 piccole isole coralline che Pechino ha annesso come suoi territori nel 2012, rivendicate da Vietnam e Filippine.
Negli ultimi mesi, con il mondo preoccupato a fronteggiare il Covid-19, la Cina ha intensificato le attività militari nell’area.
A differenza delle precedenti amministrazioni che da Nixon in poi hanno cercato di avvicinare Pechino alla comunità internazionale, l’amministrazione Trump dal 2016 ha cominciato a mostrare il pugno forte. È un po’ come cercare di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati: Fmi e World Bank – quest’ultima peraltro guidata da un americano, David Malpass – prevedono nel 2024 il superamento economico della Cina sugli Stati Uniti.
Washington sta cercando di formare una coalizione di Paesi attorno all’area del Mar Cinese Meridionale, sorta di Nato asiatica, sposando le rivendicazioni di Brunei, Malesia, Filippine, Indonesia, Vietnam, Singapore in funzione anti cinese. Assieme a Taiwan, Australia, Giappone e India.
La tensione tra le due superpotenze è altissima sul piano militare. Mike Pompeo, ex uomo Cia e ora a capo della diplomazia Usa, tra i falchi fedelissimi di Trump, il 14 luglio ha tracciato la linea: le rivendicazioni cinesi sono «del tutto illegali». L’America non aveva mai assunto una posizione così netta, pur criticando le mire espansionistiche di Pechino nell’area e rivendicando libertà di navigazione e di sorvolo. «La Repubblica popolare cinese non ha motivi legali per imporre la propria volontà sulla regione e rivendicare risorse al largo delle coste degli Stati del Sud-Est asiatico», ha scritto in un tweet Pompeo.
Mercoledì a Washington le australiane Marise Payne e Linda Reynolds, ministro degli Esteri e della Difesa, hanno siglato un patto di cooperazione militare con gli Stati Uniti sul Mar Cinese Meridionale. Nel comunicato congiunto è scritto che le rivendicazioni di Pechino «non sono valide per le leggi internazionali». Parole che hanno scatenato forti critiche in Cina contro l’Australia: Pechino è il primo partner economico di Sydney. Tanto che Payne e Reynolds nel viaggio di ritorno in Australia, dove saranno obbligate a fare quindici giorni di quarantena, si sono affrettate a smorzare i toni. «Le relazioni con la Cina sono importanti per noi – ha precisato Payne – non abbiamo intenzione di danneggiarle».
Come l’Australia, anche gli undici Paesi Asean si trovano da un lato nella necessità di collaborare con la Cina, di cui hanno bisogno per la loro crescita – l’Asean ha superato l’Ue ed è ora il primo partner commerciale della Cina – d’altra parte cercano di non scontentare l’alleato americano.
Pechino in queste settimane ha avviato colloqui con Vietnam, Filippine, Singapore, per cercare di smorzare le tensioni. «Gli Stati Uniti hanno appiccato il fuoco ovunque e costretto i Paesi a schierarsi con l’obiettivo di creare e disordini nella regione», ha detto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, durante un bilaterale in streaming con l’omologo vietnamita nel quale è stato firmato un memorandum sulla pesca.
Ad agosto la Marina cinese condurrà nuove esercitazioni militari vicino alle isole Donghsa, controllate da Taiwan. Insomma, manca solo un pretesto, chi accende la miccia, per far esplodere una polveriera in questa strategica via d’acqua.
Il Mar Cinese Meridionale è una vasta area di 3,6 milioni di chilometri quadrati: circa una volta e mezzo il Mediterraneo. Per percorrerlo interamente, dalla punta a nord di Taiwan fino allo Stretto di Malacca a Sud, una nave al massimo della velocità impiega tre giorni. Tra i mari più inquinati al mondo, secondo l’Onu. È un corridoio vitale per il traffico merci: passa da qui oltre un terzo dello shipping mondiale. Merci per 3mila miliardi di dollari l’anno. Mari contesi anche perché ricchi di riserve ittiche, importanti nella popolosa area del Sud-Est Asiatico. Con tante riserve inesplorate di idrocarburi che alimentano gli appetiti dell’energivora Cina.
Pechino rivendica il 90% del Mare Cinese Meridionale. In base alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare del 1982 (Unclos) che estende i diritti sulle risorse marine fino a 2mila chilometri dalla costa cinese. Lungo la cosiddetta “nine-dash line”, la linea dei “nove trattini” che attraversa oltre metà del Mar Cinese Meridionale. Gli Usa non hanno mai ratificato la Convenzione Onu. Ci provò l’amministrazione Obama senza successo nel giugno 2016 per l’opposizione repubblicana.
Nello stesso mese in una storica decisione la Corte permanente di arbitrato internazionale dell’Aja ha accettato il ricorso delle Filippine contro la Cina e stabilito che il Mar Cinese Meridionale è uno spazio marittimo condiviso. Concetto importante che ristabilisce un equilibrio per i Paesi confinanti, più piccoli e meno potenti. Tutti gli Stati hanno diritto ad avere una “zona economica esclusiva” entro le 200 miglia marine.
Dove queste zone si sovrappongono, come nell’imbuto del Mar Cinese Meridionale, i Paesi confinanti devono cooperare e risolvere con negoziati gli eventuali contenziosi.
Negoziati che nell’area non sono riusciti a portare a niente di concreto. Sono troppi gli interessi in gioco.