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 2020  luglio 31 Venerdì calendario

Parla Maurizio Morandi, il figlio del Morandi che progettò il ponte

«Anche mio padre è stato una vittima del ponte». A un certo punto lo dice, con tutto il pudore possibile, chiedendo di evitare ogni paragone con le 43 persone che davvero sono morte sotto le macerie. E si vede che quella frase gli costa fatica. Maurizio Morandi, 80 anni, professore universitario in pensione, è un uomo riservato che non ama certo le frasi ad effetto. Anzi, non ama proprio parlare. Ha atteso fino ad oggi, fino all’ultimo.
Adesso che sta per essere inaugurato l’altro ponte di Genova, il tempo per rendere omaggio alla figura di Riccardo Morandi sta per scadere. È ancora uno degli ingegneri e accademici più ammirati e studiati all’estero. Lo era anche qui, fino a quel 14 agosto 2018, quando crollò il viadotto sul Polcevera che fin dal 1967 portava il suo nome. Da allora è diventato quasi sinonimo di quella tragedia. «All’inizio ci sono state persone che hanno cercato di demolire anche il progetto di quell’opera, e il suo autore, descrivendolo come un pasticcione, sostenendo che la colpa fosse sua».
A chi conveniva?
«Dire che era stato sbagliato tutto fin dall’inizio era la strada più facile, perché si gettava la responsabilità addosso a un uomo che era morto da trent’anni e non poteva più rispondere».
Un’operazione vera e propria?
«Un misto di malafede e incompetenza. Cinque giorni dopo il crollo, un giornale titolò a tutta pagina che era scomparso il progetto originario di mio padre. Invece era dov’è sempre stato dal 1992, all’Archivio di Stato, consultabile a piacimento».
Quali sentimenti prova sull’inaugurazione del nuovo ponte?
«Rimane il dolore per le vittime. Dopodiché, trovo encomiabile la velocità con la quale è stato ricostruito. Hanno mantenuto i tempi, dando prova di grande capacità organizzativa, cosa rara in Italia. Un ottimo lavoro».
Le piace?
«Non sono la persona più adatta a dare un parere, per via del cognome che porto. Ho una stima enorme di Renzo Piano, non mi permetterei mai di giudicare una sua opera».
Cosa ha fatto in questi due anni?
«Ho lottato per difendere la memoria di mio padre. Un ottuagenario che si batte per l’onore di un uomo scomparso da trent’anni. Proprio vero che nella vita può succedere di tutto. L’ultima mostra del Beaubourg di Parigi prima della grande ristrutturazione di fine anni Novanta fu dedicata proprio a papà. Un grande dell’ingegneria civile mondiale, diceva la brochure. Mi sembrava impossibile che un uomo studiato e ammirato in tutto il mondo, finisse in un cono d’ombra nel suo Paese».
Pensa di aver vinto la sua battaglia?
«Nel mio piccolo mondo di studiosi e ingegneri, forse sì. Non per merito mio. Ci sono state alcune belle iniziative da parte di tecnici, progettisti, architetti. Ma noi viviamo in una bolla, come tutti. Non mi faccio illusioni. Fuori, questo marchio di infamia persiste, malgrado sia stato chiarito che il progettista non aveva alcuna responsabilità».
Si disse anche che il problema erano i ponti strallati.
«Per carità. Nel mondo ce ne sono migliaia, fatti in quel modo. Bastava fare le ispezioni. Bastava non essere sciatti. Mio padre aveva denunciato più volte l’esigenza di fare manutenzione sul “suo” ponte».
Cosa ricorda di quel giorno?
«Mi chiamò mio figlio, dicendomi che era crollato il Polcevera. Sa, noi non lo abbiamo mai chiamato il Morandi. Il senso di incredulità mi rimase addosso per giorni. Oltre a quello per le vittime, c’è stato anche un dolore più privato. La perdita di un gioiello di famiglia. Era il ponte che papà amava di più. Ne eravamo tutti orgogliosi».
Lei c’era mai passato sopra?
«La prima volta fu all’inaugurazione. Ma non quella con il presidente Saragat, un’altra. C’erano un paio di ministri, il ponte non era ancora completato. Sa, le inaugurazioni a getto continuo non sono certo una invenzione recente…»
Chi era Riccardo Morandi?
«Una persona che aveva al primo posto il lavoro e le cose che lo riguardavano. Ma anche un buon padre, nonostante fosse immerso e preso dai suoi progetti».
Lei ha cercato di seguire le sue orme?
«Fino a un certo punto. Mi sono laureato in ingegneria, per ragioni abbastanza intuibili. Fin da piccolo sapevo che avrei dovuto farlo. Ma ben presto ho capito che avrei preferito fare l’architetto, e ci sono riuscito. Ho insegnato per trent’anni storia dell’architettura e progettazione urbanistica. La mela non è caduta troppo lontano dall’albero, come vede».
Perché suo padre riteneva il ponte Morandi il suo capolavoro?
«Era la dimostrazione dell’importanza che lui attribuiva al paesaggio e al ruolo che una struttura doveva avere nell’ambiente. Volle inserire in una zona spoglia come la Valpolcevera un elemento che desse valore a un posto anonimo, tanto da farlo diventare un luogo».
Ci sono analogie con il progetto di Renzo Piano?
«Hanno seguito strade diverse, come è giusto che sia. Con il suo progetto, mio padre voleva caratterizzare l’ambiente. Quello di Piano prevede un ponte che si inserisca nell’ambiente in maniera non invasiva».
Le dispiace che il Morandi sia stato abbattuto?
«Molto. Non lo nascondo. Alcuni elementi potevano rimanere come testimonianza della vita di quella valle. Si è invece voluto cancellarlo completamente con l’esplosivo. Per noi studiosi era comunque un segno culturale ed architettonico importante. Per le 43 vittime era un segno di lutto. Me ne rendo conto».
Il giorno della demolizione c’erano tante persone che piangevano.
«Le loro lacrime sono un bel testamento della bontà del lavoro di Riccardo Morandi».
Davvero ritiene suo padre un’altra vittima di quella tragedia?
«Solo in senso figurato, si intende. Non voglio essere blasfemo. Ma nonostante gli sforzi miei e di altri amici, molte persone lo ritengono ancora responsabile del crollo. Una ingiustizia spaventosa. Vorrei tanto che la memoria pubblica di mio padre venisse recuperata. Credo che se lo meriti».
Cosa insegna la vicenda del ponte Morandi?
«Non siamo stati capaci di difendere le opere di ingegno fatte nell’Italia della ricostruzione, della quale il ponte Morandi era un simbolo. Se il nuovo ponte segna l’inizio di un’altra epoca, allora ricordiamoci di averne cura anche dopo, quando si saranno spente le luci della ribalta».