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 2020  luglio 31 Venerdì calendario

Totò a Capri

Nell’agosto del 1949 Totò aveva in mente solo una cosa: rimanere a Capri il più a lungo possibile. Tutto il resto, compreso il film da finire, L’imperatore di Capri, passava in secondo piano. «Dire Totò e dire Capri è ormai la stessa cosa», si leggeva in quei giorni su un settimanale, «morto Axel Munthe, l’innamorato numero uno dell’isola è il principe Antonio de Curtis». Aveva scoperto Capri per caso: due lustri prima, aveva messo nella bombetta tre nomi di località turistiche e la moglie Diana aveva estratto l’isola dei Faraglioni. Capri era diventata la meta prediletta in cui ritemprarsi dalle fatiche del teatro. Ma il cinema aveva preso a braccarlo. Nella primavera di quel ‘49, all’apice della gloria e degli incassi, gli avevano proposto una mezza dozzina di film tra cui un Totò sordomuto e un Via col mento. Aveva accettato L’imperatore di Capri perché gli consentiva di girare nell’isola del cuore.
Le riprese erano iniziate il 25 luglio, in piena stagione turistica. Dietro la macchina da presa c’era Luigi Comencini: lombardo, metodico, austero, in curriculum un solo film, il drammatico Proibito rubare, che aveva incassato pochissimo: L’imperatore di Capri era un risarcimento a Carlo Ponti per quei magri guadagni. Il film faceva la satira dei tipi eccentrici che d’estate affollavano l’isola. «Una gioventù che tutti ormai sanno di costumi forzatamente bizzarri», scriveva Flaiano, «con tendenza alla effeminatezza, occupata nella creazione di un terzo sesso, incerta tra il linguaggio surrealista dei bambini, le canzonette dei film e l’esistenzialismo degli autori d’importazione». Perciò ecco Galeazzo Benti (nel film è Dodo della Baggina) con una gallina sotto il braccio (Dado Ruspoli girava con un corvo sulla spalla), i copricapo strambi, l’elezione di Mister Capri, il bagno vestiti. Realtà e finzione gareggiano: a un certo punto una trentina di giovanotti abbigliati nella maniera più variopinta si presentano sul set: iscritti al Sindacato Generici Capresi, si reputano gli unici autorizzati a comparire nelle pellicole girate sull’isola; la produzione preferirebbe utilizzare come comparse (gratuite) i villeggianti, ma li accontenta scritturandoli per alcune scene. La storia alla base del plot è futile quanto basta: il cameriere napoletano Antonio De Fazio insegue la bella Sonia fino a Capri, lì tutti lo scambiano per il ricchissimo Bey di Agapur. Sonia è Yvonne Sanson, reduce dalle riprese di Catene, e qui recita con un’esotica presa diretta; nata in Grecia da padre francese e madre turca, è dotata di forme burrose e fascino incendiario. È lei, più di Totò, a portare scompiglio sull’isola provocando turbamenti e disordini fra i giovani del luogo. Benti ricorderà che la giornata di lavoro del principe, pagato un milione di lire al dì, «durava al massimo tre ore, poi il segretario annunciava che il principe era stanco e nun ce la faceva cchiù!». L’attore trascorreva il resto della giornata sulla terrazza del Quisisana ad ascoltare l’orchestra dell’albergo o andando a Napoli, in incognito, con Diana e la figlia Liliana. In effetti Totò ha ingaggiato con la produzione un sotterraneo braccio di ferro: ha firmato per sessanta giorni di lavorazione, a patto di ricavarci non uno ma due film. Ponti anela di chiudere al più presto per girare a Roma Totò cerca casa. Ma Totò a Capri ci sta benissimo, non ha alcuna fretta. Qualche incidente lo aiuta a prendere tempo. Durante le riprese della scena in motoscafo, la barca su cui si trovava con Comencini e altre persone si arena al largo di Marina Grande. Lontana dall’isola, vicina al tramonto, la troupe teme di dover passare la notte in balia dei flutti ma mantiene la calma, Totò non è mai stato un lupo di mare e la sola idea di naufragare lo farebbe impazzire. Il comico se ne accorge dopo mezz’ora: «Ostrega! Siamo arenati! Ma qui non c’è nessuno!». Un tecnico ha con sé alcuni fumaroli, i petardi che al cinema servono per creare scie di fumo. Il primo, bagnato, non funziona; accendono gli altri tutti insieme, provocando una grossa nuvola finalmente visibile dalla riva. Arrivano i soccorsi. Dalla terrazza della funicolare i turisti tirano fuori i binocoli per godersi lo spettacolo di Totò salvato dalle acque.
C’è pure il risvolto tragico. In una scena al Quisisana, Totò deve afferrare il serpente del vero Bey di Agapur, scambiandolo per la cornetta del telefono e per il manico della doccia. Comencini decide di usare un rettile vero e, prima di girare, Antonio de Curtis cerca di familiarizzare con il “partner”. Ma appena l’attore si è abituato a tenerlo in mano, il rettile muore sotto i riflettori. Il trovarobe va fino in Abruzzo per recuperarne un altro, che spira subito dopo; Comencini finirà la scena con un serpente di gomma. «Durante la lavorazione mi sentivo un estraneo», ricorderà il regista anni dopo. «Ogni volta che lo vedo in tv provo disagio, come se non fosse roba mia».
La troupe ripartì prima della fine di agosto senza che L’imperatore fosse completato: la lunga scena con Marisa Merlini, necrofila baronessa von Krapfen, venne realizzata nel chiuso degli studi – ed è la porzione meno divertente del film. Subito dopo cominciarono le riprese di Totò cerca casa; girato e montato di gran carriera, uscì prima dell’ Imperatore e incassò pure di più. Un paio d’anni dopo, Totò dedicò a Capri una canzone, Isola d’oro ("son vent’anni che ci vado, alla piccola marina per guardare il mare blu…"), incisa da Giacomo Rondinella. All’attore i capresi intitolarono una piazzetta nel 2012: riconoscenti, ma un po’ tardivi.