«Ventitré. Avevo dato venti esami a Ingegneria, a Bologna. Dissi a mio padre che mi trasferivo a Milano, perché volevo iscrivermi al Politecnico. Invece passai in clandestinità».
Le credette?
«Secondo me no».
Perché il 17 agosto 1970 , al convegno di Pecorile, scelse di diventare un terrorista?
«Il perché è complicato e semplice allo stesso tempo. C’erano stati vari tentativi di colpo di Stato e c’era stata la strage di piazza Fontana. Lo scontro sociale era fortissimo. Lo slogan della sinistra extraparlamentare era: "Lo Stato si abbatte, non si cambia". Dovevi scegliere con chi stare».
Gli strumenti che offriva la democrazia non erano sufficienti?
«No, anzi c’era il dubbio che la democrazia fosse fasulla».
A Pecorile venne sancito il passaggio alla clandestinità?
«Sì, e implicava la lotta armata».
Era una via senza ritorno?
«Bisognava bruciare la propria carta d’identità davanti agli altri. Io assunsi quattro identità diverse. Nella falsificazione dei documenti fummo aiutati dalla mala milanese».
Chi scelse il nome, Brigate Rosse?
«Renato Curcio e Mara Cagol».
È vero che la stella a cinque punte, il simbolo delle Br, venne ideata in trattoria, schizzata su un tovagliolo?
«Sì. Ed è sbilenca. Fu un’idea mutuata dai Tupamaros, i guerriglieri dell’Uruguay. Volevamo che fosse utilizzabile da tutti. Cosa che puntualmente avvenne. Una volta, scherzando con Curcio, gli dissi: "Dovevamo chiedere i diritti d’autore"».
Il primo sequestro, di Idalgo Macchiarini, il dirigente della Sit Siemens, lo ideò lei?
«Sì, perché gli operai ci dicevano: "I dirigenti nelle fabbriche ci stanno massacrando". Decidemmo allora di divulgare la sua foto con la pistola puntata in faccia. Era una Luger, un’arma tedesca, nazista. Ce l’avevano data i partigiani».
Fu lei a puntargli la pistola in faccia?
«Sì».
Ha mai ucciso qualcuno?
«No. E mi sono anche rifiutato di farlo».
Le Br volevano sequestrare Giulio Andreotti. Perché non si fece?
«Perché mi arrestarono e mi trovarono addosso dei numeri di telefono del suo studio».
Andreotti non era scortato?
«No. Me lo ritrovai a pochi metri, in mezzo alla gente, come uno qualunque, per cui a un certo punto mi sono chiesto: "Ma è veramente lui?" Mi avvicinai e gli toccai la gobba. Si voltò e mi guardò in maniera fredda. Era un obiettivo facilissimo».
Nel settembre 1974 lei e Curcio venite arrestati e la guida passa a Mario Moretti. Chi è Moretti?
«Uno con delle idee molto radicali, automatiche. Il giorno prima dell’arresto in una riunione dell’esecutivo delle Br - c’eravamo io, Mara, Renato e Moretti - ci fu uno scontro tra me e lui. Gli dissi che non era in grado di gestire la lotta armata, perché non aveva una cultura adeguata, era un sindacalista molto rigido. Gli consigliai di tornare in fabbrica».
Il giorno dopo lei viene
arrestato.
«Forse Moretti mi ha fatto arrestare».
Come spiega il fatto che non abbia mai voluto parlare con un magistrato?
«Sottobanco ha parlato con chi voleva».
Lei lo descrive come un intellettuale un po’ astratto. Ma dimentica che le Brigate Rosse hanno ucciso 128 persone.
«Le responsabilità di Moretti sono totali. Non credo che abbia fatto autocritica di nessun tipo».
Anche lei porta una grande responsabilità morale.
«Assolutamente sì. Politica e morale. Non mi sono mai chiamato fuori».
L’ha più rivisto, Moretti?
«No. Neanche con Renato mi sono mai rivisto».
Quando ha visto Curcio per l’ultima volta?
«Nel 1982».
Questo perché?
«Per evitare di mettere le zampe in maniera troppo drammatica su certe cose».
Com’è il suo presente?
«Non siamo persone qualunque.
Dobbiamo rendere conto alla gente di quanto è accaduto. Spesso mi riconoscono per strada e mi fermano. Nessuno mi ha mai aggredito. Anzi, c’è sempre qualcuno che dice: "Ci vorrebbero adesso le Brigate Rosse!". E io rispondo: "Ma nessuno t’impedisce di farle"».
C’è poco da scherzare.
Dopodiché le chiedo, perché la gente reagisce così?
«Perché la situazione di questo Paese è terribile. E arrivi a pensare che una scelta radicale come lo fu la nostra potrebbe in qualche modo risolvere le cose da un punto di vista emotivo, psicologico. In realtà non risolverebbe niente, al contrario. La nostra vicenda è chiusa».
Ma restano gli orfani di quei morti. Ci pensa mai?
«Ci penso eccome. Una delle scelte che ho fatto è stata quella di incontrarli e di essere disponibile a qualunque scelta da fare insieme».
Lei sostiene che le Br non avevano la capacità militare di fare quel che fecero in via Fani.
«C’è anche il sospetto che non fossero solo quegli otto in Via Fani.
Le dinamiche del sequestro non sono quelle raccontate da Moretti e da Morucci. Non c’è mai stata vera chiarezza».
Perché le Br non diffusero, come promesso, il Memoriale, ovvero le dichiarazioni rese da Moro durante il sequestro?
«L’unica risposta che le posso dare è quella che mi diede Franco Bonisoli, uno di via Fani: "Io non ci avevo capito un cazzo". C’era forse qualcun altro che aveva capito benissimo».
Le Brigate Rosse sono state infiltrate o eterodirette?
«I poteri vari che si sono misurati in quegli anni hanno certamente fatto i conti con la realtà delle Br. Le linee di infiltrazione non sono una, ma diverse, dall’Unione sovietica agli americani».
Se non ci fosse stata la violenza armata oggi cosa sarebbe, un ingegnere in pensione?
«Probabilmente sì. Io in realtà volevo andare a Cuba e sarei finito nei guai lo stesso. Vede, ogni persona è segnata dalla sua stella, che la porta a ragionare in un certo modo, a fare certe scelte. Ma alla fine non ho rimpianti, rimorsi invece sì».
E il rimorso più grande qual è?
«Aver favorito o comunque non essermi opposto alla violenza. La violenza cieca e terribile che ha insanguinato questo Paese».