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 2020  luglio 30 Giovedì calendario

Katiuscia, la diva ribelle dei fotoromanzi

Del risorto Sogno, Caterina Piretti in arte Katiuscia, è il volto scelto per la prima copertina: simbolo di cosa furono, tra gli Anni 60 e i 70, le dive dei fotoromanzi. Attrice bambina, adolescente coccolata e sfruttata per via del gran successo, star strapagata, contesa e viziata. Fu interprete seriale di infinite storie d’amore travagliate, nuvole parlanti e immagini stereotipate. Ebbe una rivista intitolata a suo nome. Manara la immortalò in una copertina di Grand Hotel. Anche la sua vita pare uscita da un fotoromanzo: ascesa e caduta; amori famosi e amori tragici; droga, autodistruzione e carcere; rinascita, salvezza e saggezza.
Oggi pratica il buddismo, vive nella campagna di Lucca e di quegli anni ha ricordi vividi che ha raccontato in un libro, Katiuscia, la diva ribelle. Dalle nuvole parlanti non si è allontanata, anche se oggi sono quelle dei fumetti: da anni commercia in riproduzioni artistiche e gadget legati a quel mondo, che adora e di cui non perde una fiera o un festival. «Lavoro per i nerd - dice -. Ma questo mi permette di stare in mezzo ai giovani». Il passato non lo rinnega, anche se ha coscienza degli errori fatti. Vorrebbe essere di monito a chi come lei potrebbe prende per incoscienza la strada sbagliata.
Figlia di un italiano e di un’albanese, era Katiuscia fin da bimba. Una bimba predestinata al successo. «Passeggiavo in centro a Roma con mia madre - ricorda -. Sordi mi vide e le chiese se voleva farmi recitare. Avevo una faccia buffa. Mi presero per Il mafioso di Lattuada: non ho un ricordo ben preciso, se non di questo "gigante buono" (Sordi, ndr) così gentile e paziente con me. Non feci altri film, ma divenni una piccola star dei Caroselli».
Ai fotoromanzi come arrivò?
«Mia sorella Paola, di qualche anno più grande, già ci lavorava. Un giorno andai con lei sul set e la mia faccia, ancora una volta, piacque al direttore Filippo Ciolfi. Avevo 14 anni e con me vollero tentare una strada mai percorsa prima: la storia di una ragazzina che si innamora di un uomo maturo. Le giovanissime si identificarono in me. Il numero andò esaurito. Era il 1971, lavoravo tantissimo. Ma i set erano allegri e un po’ confusionari. Eravamo una famiglia. Furono anni bellissimi. I problemi grossi vennero quando, dopo 7 anni alla Lancio, mal consigliata da avvocati e agenti, accettai, controvoglia e con grandi sensi di colpa, di passare a Grand Hotel».
Cosa accadde?
«Che lì l’atmosfera era completamente diversa: organizzata, professionale, ma anche fredda. Venivo trattata non da ragazzina ma da star. I miei capricci temuti. Là avevo Pippo che mi faceva da papà, qui l’autista sotto casa. Mi sono persa. Ribelle e curiosa, facevo le notti in bianco, avevo iniziato a drogarmi per gioco e leggerezza: prima qualche tiro di coca, poi l’eroina. Prima la fumavo poi iniziai a bucarmi. Io non sapevo e nessuno mi diceva che era un gioco pericoloso, che la mia vita ne sarebbe stata distrutta e tutto avrebbe girato solo intorno a quello. Alla fine non ci stavo più con la testa e anche il lavoro andò a rotoli. Ero predisposta? Una questione di carattere? Chissà...».
Però ne uscì.
«Dovevo toccare il fondo, prima. Essere accusata con mio marito di spaccio e traffico internazionale di stupefacenti, finire in carcere e ai domiciliari più volte. E, intanto, perdere il mio amatissimo, bellissimo marito, che avevo conosciuto una notte d’estate sulla spiaggia di Fregene, con cui avevo fatto un figlio e con cui condividevo tutto: ucciso da un’overdose. Dopo la sua morte iniziai un percorso autodistruttivo. Sul set mi ci portavano di peso. Mi svegliavo al mattino e desideravo morire. Ancora una volta mi sentivo in colpa: attorno a me la gente moriva, perché io no?».
Come ne uscì, allora?
«Avevo questo bambino meraviglioso, uguale al suo papà. Lo dovevo a lui. Andai in comunità, a Saman, in Sicilia: Mauro Rostagno era stato ucciso pochi mesi prima, ma il suo carisma aleggiava su tutto. Restai per 4 anni: un anno e mezzo per disintossicarmi, poi per accompagnare su un percorso di guarigione altri come me. Lì ho capito il valore delle piccole cose, imparato la disciplina: che non era una parolaccia, ma dava serenità. Quella serenità che avrei poi trovato in modo definitivo nel Buddismo».
E oggi?
«Oggi sono una donna consapevole e serena. Non ho dimenticato quegli anni e per questo non abbasso la guardia, anche se so di esserne fuori. Vorrei trasmettere la mia esperienza ai ragazzi di oggi: non fate come me, non buttate la vostra vita. Gli sbarluccichii di un certo mondo abbagliano, ma poi si spengono».
Molti morti alle sue spalle, diceva.
«Quanti amici e colleghi ho perso: overdose o Aids».
E Franco Gasparri? Siete stati amanti in un’infinità di fotoromanzi.
«In un sondaggio era stato preferito ad Alain Delon. Ma era anche il prototipo del bravo ragazzo, sposato e padre di famiglia. Una bella persona. Ma sfortunato. Un incidente di moto lo ha reso tetraplegico. È sopravvissuto per molti anni e con coraggio a quella tragedia, ricostruendosi una vita. Ricordo la notte dell’incidente: da anni non lavoravo più alla Lancio, ma ci siamo ritrovati tutti là, davanti a quella porta d’ospedale, a piangere e sperare».
Un amore vero fu invece quello con Califano.
«Ero pazza di lui: bello e maledetto. Un poeta. Erano gli anni di Tutto il resto è noia: vivevamo così... Io di giorno sul set, la notte con lui per Roma, poi di nuovo sul set senza toccare letto. Iniziavano allora le mie storie di droga. Tra noi era una grande attrazione ma anche un continuo tira-e-molla. Mi amava quando c’ero, mi dimenticava subito dopo. Gli piacevano troppo le ragazzine... È durata due anni e sono stati bellissimi».
Come si sente vedendosi oggi in quelle immagini d’epoca?
«Mi guardo con distacco e con occhio critico. Ma anche da fan di me stessa. Quella che vedo mi sembra un’altra persona. Mi è piaciuta l’idea di Sprea di riportare in vita Sogno. Abbiamo tutti bisogno di sognare. E sono contenta anche della sua proposta di affidarmi una sorta di rubrica di posta dei lettori. Al mondo dei fotoromanzi non mi ero più avvicinata, ho sempre detto di no. Anche se poi, grazie a Facebook, il contatto con le mie fan non l’ho mai perso. Oggi dialogo con i loro figli e nipoti, che quelle vecchie riviste hanno spesso ritrovato in casa e letto con curiosità».