È nato il 30 luglio del 1950 a Napoli.
«Sting cantava "born in the fifties", siamo una generazione che ha avuto la fortuna di vedere e raccontare tante cose. Ho vissuto a Napoli fino a cinque anni, abitavamo in una casa bombardata, il corridoio finiva nel nulla, la parete esterna era crollata. Eravamo in via Solitaria, non ho mai capito se fosse una indicazione buddista, qualcosa legato al karma. Mio padre, avvocato, si è trasferito a Milano, io tifavo Napoli e poi a furia di botte ai primi anni delle elementari mi hanno costretto a scegliere una delle squadre milanesi. Ho scelto l’Inter perché aveva l’azzurro del Napoli nella maglia. Ho un vago ricordo degli anni 50 e 60, l’arrivo a Milano, il freddo. Mi avevano comprato un sacco di cappottini. Il ricordo più forte che ho è di emarginazione, i cartelli con scritto "Non si affitta ai meridionali", i bar dove non potevano entrare quelli del Sud, le liti con i compagni quando mio padre, che parlava napoletano, mi veniva a prendere a scuola».
I rapporti in famiglia?
«Mia madre era affettiva, cosa che mi ha creato qualche problema con le donne, da un lato non trovi lo stesso modello e se invece lo trovi la tradisci. Organizzavo spettacoli con i burattini per le mie sorelle, ero il pagliaccio di casa: l’ho ritrovato con le nipotine della mia compagna, mi chiamano il nonno birichino».
Il decennio dai Sessanta e Settanta è stato fondamentale.
«Si sparava nelle strade, però io mi ricordo sempre una vignetta di Altan, "Dopo il gelo degli anni di piombo godiamoci il calduccio di questi anni di merda". È vero, erano anni tragici, ma c’era una spinta verso il futuro, una voglia di partecipazione. A 13 anni convinsi i miei a comprarmi una chitarra elettrica. Suonavo Hendrix, i Cream, la sera, nel deposito di un mercato ortofrutticolo al Gallaratese, un freddo della madonna».
Incontrò Fabrizio De André.
«Andavo al liceo Beccaria, c’erano Finardi, Vecchioni, Camerini, tutto il rock milanese era lì. In quegli anni ho conosciuto Mauro Pagani, la Pfm, Demetrio Stratos. Fabrizio vide Sogno di una notte di mezz’estate all’Elfo, mi proposero di girare il video La domenica delle salme , di una attualità sconvolgente. È un corto di otto minuti, l’unico video in cui Fabrizio compare, a parte i concerti. Fabrizio era difficile e meraviglioso. La frase che condensa il mio rapporto con lui è "Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori". Fabrizio era questo davvero, doversi sporcare le mani con la vita, perché sennò sei uno spettatore».
Il Teatro dell’Elfo rappresenta ancora molto per lei.
«Nasceva una spinta politica forte, la musica non bastava a esprimermi. Fare il cinema a Milano era impossibile. Così fondammo un gruppo autarchico, una compagnia. L’Elfo è l’unica vera utopia che ho realizzato nella mia vita, è vivo e vegeto, nonostante il Covid. Eravamo una comune, come il Living Theatre, ci scambiavamo fidanzate e fidanzati, un nucleo emotivo forte. L’Elfo mi ha dato sicurezza, i ragazzi di oggi sono più svegli, ma isolati, non hanno il senso di comunità».
Era alla ricerca della sua strada?
«Per poco non sono arrivato a droga e estremismo politico e lotta armata. Mi ha salvato il teatro. Alcuni di noi, tra tecnici e macchinisti, erano legati a formazioni armate di quel periodo lì. Erano anni particolari. Lo sappiamo, in quegli anni l’eroina è stata la soluzione finale del sistema per distruggere una generazione secondo me, come nella poesia di Ginsberg: le menti migliori della mia generazione bruciate da angeli e da macchine. Le abbiamo vissute tutte, la gente in overdose nei camerini del teatro, la polizia che arrivava».
Oggi è un altro Paese.
«Viviamo in una realtà secondo me più dura, divisa, pilotata. Siamo molto influenzati, guidati. A volte anche in maniera violenta. Mentre allora la rabbia, l’odio o la voglia di cambiare erano una cosa collettiva, ora è un sentimento individuale che può catalizzarsi anche in modo molto negativo».
Da regista è diventato famoso con la quadrilogia della fuga. Un ricordo indimenticabile?
«Una notte in cui giravamo a Puerto Escondido, in Messico. Torniamo in camera e la troviamo piena di fiori e champagne. Chiamiamo la reception, dicono che non è un errore. Trovo un biglietto e scopro che Mediterraneo è candidato agli Oscar. Portiamo le bottiglie in piscina, festeggiamo con gli altri. Mentre brindo con Rita (la sua compagna, ndr) lei mi dice "sei illuminato", era stata una stella cadente che aveva solcato il cielo. Non lo dimenticherò mai».
Eppure dalla festa degli Oscar è fuggito.
«Per anni ho tenuto la statuetta in ufficio, poi nel bagno, ora è il fermalibri in salotto. Reagii con un viaggio in India e il progetto di Nirvana che fece impazzire Cecchi Gori, che diceva "non so manco che è il cyberpunk, ma come gli dico di no se ha vinto l’Oscar?"».
Lei voleva essere il regista anche della sua vita.
«Il mio analista mi diceva "pensi di poter dirigere la vita, ma puoi essere solo un attore che improvvisa". Vorrei controllare tutto, ma le sorprese devi accettarle».
Il suo film che le piace di più?
«Ce ne sono alcuni, Io non ho paura, Tutto il mio folle amore, la poesia semplice di Marrakech Express e Turné. E Denti, un film depresso e sincero, come ero io in quel periodo».
A 70 anni è più attivo che mai.
«Ho finito L’Italia in lockdown (titolo provvisorio, ndr) con i video mandati durante il Covid. credo di essere riuscito a mettere insieme il dolore e la preoccupazione, ma anche la voglia di vivere. Poi sto preparando Comedians, con una schiera di giovani interpreti, e Il ritorno di Casanova di Schnitzler: un gioco di specchi, un doppio Casanova tra il Settecento e il presente».
Meglio avere 60 anni o 70?
«Meglio 70, un classico, una giacca di cachemire vecchia che ti metti e ti sta bene. Ho girato Marrakech che avevo già 38 anni, tra i 40 e 50 ho imparato, il decennio successivo è stato difficile per amore, gli ultimi dieci anni sono stati più riflessivi. Non importano i dolorini, la fatica a camminare sul Sassolungo, pazienza. Ma ho tante idee da realizzare».
Come festeggerà?
«Una cenetta con Rita in una trattoria di contadini al confine con la Slovenia. I compleanni oggi sono qualcosa di intimo, mi sono liberato di tante cose, ho lasciato la casa a Roma. A settant’anni mi regalo la leggerezza».