Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2020
Mille giorni per il contratto Anas
Sono passati 940 giorni dal momento in cui la legge di bilancio 2018 ha reso disponibili i 6,1 miliardi della tranche 2018 del contratto di programma con cui l’Anas dovrebbe finanziare le proprie opere. Ne sarebbero dovuti passare novanta – almeno secondo l’impegno del ministero delle Infrastrutture verso la società stradale – per far arrivare quelle somme ma gli undici passaggi necessari per arrivare al capolinea (e oggi siamo solo al sesto) hanno dilatato i tempi oltre ogni orizzonte temporale sostenibile e accettabile per uno Stato democratico. Quello stesso Stato – ma qui bisogna dire governo – che nel momento in cui vara un decreto legge di 65 articoli per semplificare anzitutto le procedure di avvio e realizzazione delle opere pubbliche stralcia proprio la norma, più volte annunciata, che avrebbe dovuto approvare rapidamente questa e altre tranche di contratti di programma 2018-2019 di Anas e anche di Rete ferroviaria italiana (Rfi). In tutto 27,1 miliardi che restano sospesi, stanziati ma non disponibili né spendibili, sacrificati a una logica consociativa che vede la moltiplicazione dei passaggi fra conflitti interministeriali, decisioni Cipe, pareri parlamentari sulle singole opere, passaggi molteplici e ripetuti alla Corte dei conti (ma in uffici diversi). Come già in altre circostanze – si pensi al decreto sbloccacantieri del governo gialloverde nel giugno 2019 – un governo discute al proprio interno per alcuni mesi un pacchetto di norme, prova ad affrontare alcune questioni chiave, poi perde i pezzi fondamentali per strada. E magari imbarca norme utili solo a chi le propone.
Senza nulla togliere allo spirito e ad alcune norme importantissime del decreto legge 76 sulle semplificazioni – quelle sul danno erariale o le accelerazioni per le opere green – quei 940 giorni del contratto Anas pendono come una spada di Damocle sul provvedimento ora all’esame del Senato, quasi a ricordare che si rischia anche stavolta il buco nell’acqua. O che si risolveranno alcune criticità lasciandone in piedi altre, con un risultato limitato sulla catena complessiva.
E alla fine di una intensa tre giorni di audizioni in cui sono stati ascoltati dalle commissioni Affari costituzionali e Lavori pubblici imprese, pubbliche amministrazioni, esperti, altri soggetti istituzionali viene fuori che quella norma più volte annunciata e poi stralciata non è l’unico buco del decreto semplificazioni.
Molti, soprattutto fra le imprese hanno ricordato che la semplificazione dovrebbe riguardare tutto il rapporto fra Pa e privati e in particolare tutto il percorso di approvazione degli investimenti (pubblici e privati) da parte della pubblica amministrazione. Soprattutto non si può dimenticare di intervenire su quell’iter ordinario di approvazione del progetto «a monte» dell’affidamento dell’appalto che è la vera patologia italiana, con tempi che arrivano a 8-10 anni solo per poter aprire un cantiere (ancora l’Anas ha mostrato in passato questa criticità) sui 15 anni medi necessari per realizzare una grande opera.
Il decreto è timido su alcuni passaggi chiave. Per esempio su poteri e sui tempi del ministero dell’Ambiente nella procedura ordinaria di valutazione di impatto ambientale. Si riconosce anche che il problema esiste perché per le sole opere green si prevede una procedura semplificata e accelerata (che ha per altro ha bisogno di essere attivata con la nomina di una commissione ad hoc). Come impostazione generale il decreto affida la soluzione delle criticità, là dove non riesce a intervenire sulle procedure ordinarie, a figure commissariali straordinarie.
Ma non mancano altre omissioni rispetto ad aspetti delicatissimi per cui l’Italia è sotto procedura Ue o ha addirittura subito condanne dalla Corte Ue. Per esempio la riforma del subappalto, anche questa annunciata e non inserita nel provvedimento. Senza contare grandi questioni critiche che sono parallele al tema degli investimenti pubblici come i tempi di pagamento della Pa e lo split payment recentemente prorogato dal governo.
Un capitolo diverso riguarda l’assenza di segnali politici o di riferimenti nel Dl su misure fondamentali per un salto di efficienza della macchina già previste dall’ordinamento ma rimaste del tutto inattuate. Due aspetti decisivi – la riduzione delle stazioni appaltanti e una accelerazione del processo di digitalizzazione del public procurement – sono stati ricordati ieri da Bankitalia per voce del capo del Dipartimento Immobili e appalti, Luigi Donato. Che dà anche una lettura più complessiva quando dice che l’approccio del governo di agire con strumenti e tempi normativi diversi «consente di anticipare l’adozione delle misure più urgenti, osservarne l’impatto, e si auspica in tempi brevi, intervenire in vista di una riforma più organica del sistema italiano del public procurement».