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 2020  luglio 28 Martedì calendario

1920, rivoluzione alla Scala

Se potessero ritornare, tutti e tre, un secolo dopo. E trovare, adesso, la strada per evitare che i nostri teatri d’opera finiscano in un fosso uno in fila all’altro, come nella Parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio. Milano, luglio 1920. Il direttore d’orchestra, Arturo Toscanini, il primo sindaco socialista della città, Emilio Caldara, e il senatore e direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini uniscono le forze perché La Scala torni a vivere. Il teatro è di fatto chiuso dal settembre 1917, quando la giunta comunale ha accolto la richiesta del concessionario, il duca Uberto Visconti di Modrone, di rescindere il contratto di gestione del Teatro. L’Italia è in guerra, manca tutto, dal carbone per riscaldare la sala ai musicisti e ai cantanti, impegnati al fronte. In queste condizioni è impossibile continuare l’attività.
A guerra finita, Toscanini, già molto celebre, accetta l’incarico di «consulente artistico» a tre condizioni: più produttività, più qualità, più diritti. Cambia la disposizione del palcoscenico, riduce la distanza tra buca d’orchestra e sala, affida a Mariano Fortuny il compito di realizzare un nuovo sistema di illuminazione, pretende il controllo sugli artisti scritturati liberandosi dal precedente sistema dell’impresariato, forma una nuova orchestra, un nuovo coro, un nuovo corpo di ballo, modifica i contratti di lavoro dei dipendenti da occasionali a stabili, estende la base sociale del pubblico. L’atto più clamoroso è l’esproprio dei «palchettisti», gli storici proprietari dei palchi del teatro, un sistema chiuso che trasmetteva questo privilegio di generazione in generazione. Toscanini trasforma una crisi in una occasione di rilancio, cambiando le regole di vita del teatro, immutate dal 1778, anno della sua fondazione.
Per comprendere la rivoluzione allora avvenuta è molto utile visitare la mostra «Nei palchi della Scala - Storie milanesi», curata da Pier Luigi Pizzi e allestita nel Museo del Teatro fino al 30 settembre. Grazie a un lavoro di ricerca d’archivio e di ricostruzione delle fonti, che ha coinvolto il Conservatorio Giuseppe Verdi e la Biblioteca Nazionale Braidense, è stato creato un database che disegna la mappa digitale dei proprietari dei palchi – tutte le principali famiglie milanesi - fino al 1920. «La proprietà dei palchi è stata tolta ai palchettisti con un atto di esproprio. Credere che ciò sia avvenuto senza contrasti e lotte feroci sarebbe ingenuo. I palchettisti si opposero strenuamente a tale decisione e poi si rassegnarono, considerando che la Scala era reduce da tre anni di chiusura, che aveva arrecato loro danni economici gravissimi, visto che non potevano affittare i palchi e trarne profitto», dice Donatella Brunazzi, direttrice del Museo. E così riassume il senso primo di quella metamorfosi: «La fine dell’epoca dei palchettisti aprì la Scala al sogno del teatro per tutti, del teatro per il popolo, idea un po’ ingenua di cui era portavoce lo stesso Toscanini. La Scala non divenne un teatro del popolo, ma la sua sfera di influenza sociale indubbiamente si allargò e ci fu un ricambio generazionale».
Emilio Caldara e Luigi Albertini capiscono che non ci sono alternative al progetto di Toscanini e fanno della rinascita della Scala una questione di orgoglio cittadino. Il nuovo teatro, trasformato in Ente autonomo, vivrà grazie alla vendita di abbonamenti e biglietti, alle donazioni di circa 30 aziende milanesi, a un contributo del Comune, a una imposta aggiuntiva del 2% sul prezzo del biglietto di tutte le manifestazioni artistiche e sportive a Milano e provincia. Si è così generato un cortocircuito virtuoso tra sostegno pubblico e privato. «L’Ente autonomo è nato, anche se per la riapertura del teatro si dovrà aspettare ancora fino al 26 dicembre del 1921, quando in un clima di grande festa Toscanini inaugurerà la prima stagione con l’adorato Falstaff», scrive Mauro Balestrazzi, autore di una accurata ricostruzione di quei fatti per la rivista Classic Voice. La prima stagione del teatro risorto si chiude in attivo. Toscanini riceve un compenso di 100.000 lire, corrispondenti a circa 150.000 euro di oggi, che restituisce al Teatro in forma anonima.
Un secolo dopo, è necessario ripartire da questa vicenda per immaginare una nuova linea di condotta per i nostri teatri d’opera, mostri giuridici soffocati dalle incertezze e dagli appetiti della politica. Sono formalmente Fondazioni di diritto privato, regolate tuttavia da contratti della Pubblica amministrazione; loro presidente è il sindaco della città, che inevitabilmente non le considera aziende dotate di autonomia progettuale, e chiamate a una gestione oculata, ma bacini elettorali e volani di visibilità.
I teatri sono afflitti da un perenne «stato di crisi, mentre i risultati economici sono ancora del tutto insufficienti a generare risorse al servizio del debito e degli investimenti per lo sviluppo», ha scritto l’avvocato Gianluca Sole, commissario straordinario per il risanamento delle Fondazioni lirico-sinfoniche. Perfetta sineddoche della nazione: non si riesce né a pagare il debito, né a investire, ma, anche in questi mesi, non si esita a spendere cifre imponenti per allestire tristi baracconate estive. In un recente dibattito organizzato per presentare Dietro le quinte dell’opera, il libro scritto da Alberto De Piero e Michele Lai per orientarsi nel labirinto delle normative contrattuali, Onofrio Cutaia, direttore generale dello Spettacolo dal vivo del ministero dei Beni e delle Attività Culturali, ha dichiarato che «c’è bisogno di un pensiero nuovo e più agile».
Non se ne vede traccia.