La Stampa, 27 luglio 2020
Se la cancel culture colpisce Gauguin
Che cosa hanno in comune un nudo di Schiele, una adolescente di Balthus e una statuetta paleolitica di 25 mila anni fa? Il fatto che tutti e tre, in forme differenti, sono stati presi di mira dai sacerdoti del politicamente corretto.
La cancel culture che imperversa oltreoceano (ma non solo), con esiti tra il tragico e il grottesco, non risparmia l’arte di ogni tempo, senza tema del ridicolo. Così può accadere che perfino l’immagine della Venere di Willendorf, una figurina steatopigia di 11 centimetri, sia rimossa da Facebook a causa della sua disturbante (?) nudità. E se in questo caso la decisione è riconducibile a un algoritmo, che fatica a distinguere tra pornografia e archeologia, non così è stato nel 2018 per i manifesti di una mostra di Schiele, affissi nelle stazioni della metropolitana londinese con le pudenda coperte da maxi pecette, o per la Thérèse rêvant di Balthus, di cui nel 2017 due attiviste americane, con una petizione che ha raccolto oltre novemila firme, hanno chiesto (senza ottenerla: c’è giudizio a Manhattan) la rimozione dalle sale del Met in quanto promuoverebbe la pedofilia.
L’accusa infamante non ha risparmiato l’anno scorso Gauguin, la cui mostra alla National Gallery di Londra è stata trattata dagli stessi curatori nel segno della disapprovazione per i costumi sessuali dell’artista, che com’è noto a Tahiti intratteneva rapporti con le minorenni e sposò una quattordicenne. Il New York Times si spinse a auspicare che nessuna sua opera fosse più esposta (un rischio che potrebbe correre anche il "fallocrate" Picasso). Ora, senza addentrarsi in una questione che dovrebbe chiamare in causa il contesto - perché non è metodologicamente corretto condannare in base ai nostri attuali parametri morali i comportamenti di persone vissute in tempi e luoghi lontani da noi -, il problema che si pone è se e fino a che punto sia lecito giudicare un’opera d’arte in base alla moralità del suo autore, ossia sostituire il criterio estetico con quello etico. Sarebbe come se, ribaltando i termini, un santo o un benefattore venissero biasimati perché brutti.
Arte è libertà?, si domanda il critico Luca Beatrice, grande esperto di arte contemporanea, nel titolo del suo pamphlet dedicato a «censura e censori al tempo del web» (ed. Giubilei Regnani, pp. 128, € 13). Il tempo dei social, che vorrebbero essere luoghi della libertà, è anche quello della libertà di spararle grosse, diffondere fake news e a volte alimentare follie collettive: fino a convertirsi in ciò che della libertà è l’opposto, la censura. Ma si può anche dare il caso di un’opera atta a urtare la sensibilità di una parte del pubblico. Chi ha ragione, chi ha torto, allora? Chi invoca la libertà dell’arte o chi pretende di poterla limitare? Beatrice ammette di non saper rispondere, però osserva che c’è differenza tra un’opera esibita in un museo, un contesto in qualche modo «protetto» dove si entra avvertiti e di proposito, e una esposta in uno spazio aperto, nella quale ci si può imbattere senza volerlo.
Ed è probabilmente per questo, in quanto è sempre stato proposto in contesti chiusi, che un lavoro in odore di blasfemia come The Holy Virgin Mary dell’anglo-nigeriano Chris Ofili - una Madonna realizzata assemblando pittura e ritagli di giornali pornografici, su un grande pannello sostenuto da due palle di sterco di elefante, una con la scritta «Virgin» e l’altra con la scritta «Mary» - è potuto passare indenne da una mostra all’altra, negli ultimi vent’anni, aumentando ogni volta il suo valore (oggi attestato sui 2,5 milioni di dollari). Un autentico obbrobrio estetico, uno dei tanti propinati dall’arte contemporanea. Qui, forse, la cultura della cancellazione potrebbe dire la sua: non in nome della moralità, ma del buon gusto.