L’Economia, 27 luglio 2020
Lo Stato pesa 111 miliardi e ha bisogno di soci
Manca l’auto, l’equivalente dell’Alfa Romeo, e poi c’è tutto. Con l’ingresso annunciato in Autostrade per l’Italia (Aspi) attraverso la Cassa depositi e prestiti, controllata dal Tesoro all’82,77%, lo Stato torna azionista di tutti i settori centrali dell’economia italiana. Se entrasse poi, come ventilato, nell’Ilva (sempre attraverso Cdp) e nell’Alitalia (qui con il ministero del Tesoro) si chiuderebbe il cerchio. Dopo la planata nel portafoglio pubblico anche del Monte dei Paschi e di Tim, negli ultimi tre anni, il paragone con l’Iri diventa inevitabile. Strade, navi, aerei, Difesa, meccanica, elettronica, telecomunicazioni, acciaio, banche, energia, treni, informazione. Caselle occupate, ora come allora. Ieri la necessità di una ricostruzione post guerra; oggi, post pandemia.
Quanto vale tutto ciò? Più dell’anno scorso. E quanto rende? Di meno. Secondo i nostri calcoli sulle sette grandi quotate (per capitalizzazione) e le nove grandi non quotate (con il metodo dei multipli), le società del Tesoro (fotografia al 20 luglio 2020, vedi tabella) valgono 111,135 miliardi, +6% dal 2018, in gran parte trainato dall’Enel. Ma l’utile per il ministero dell’Economia, cioè per le casse pubbliche, è sceso in un anno del 33% a 4,721 miliardi. E il rendimento, il rapporto fra utile e valore, è crollato del 41%: oggi è del 4,2%. Chiaro il punto: lo Stato si espande nel mercato, per effetto comprensibile della crisi, ma la redditività ovviamente non è assicurata. L’Iri del 1983, valutato a oggi, aveva un attivo di 138 miliardi. Forzando la similitudine, Cdp l’anno scorso 448,7, il triplo. Lo Stato oggi ha quote dirette più diluite (tranne Rai, Mps, Fincantieri), ma più ramificate.
Tre gli errori da evitare con questi 111 miliardi di partecipazioni: fare i cassettisti, svenderle o restarci per sempre. Per allearsi con lo Stato il mercato chiede una logica a tempo, modello Mps, con obiettivi di profitto.
E nella vicenda Autostrade, ancora tutta da scrivere (secondo le stime di Equita, Cdp dovrebbe sottoscrivere in aumento di capitale fra i 3 e i 4 miliardi per arrivare al 31-33%), la presenza di coinvestitori è essenziale perché il debutto in Borsa promesso diventi vero e non si trasformi in una partecipazione definitiva dello Stato, costretto a fare l’imprenditore. Non è il suo mestiere. E la politica spesso si fa prendere la mano. Assicurare i controlli e dettare le regole lo è. «Operazione industriale e di mercato», ha assicurato il 23 luglio lo stesso Fabrizio Palermo, ceo di Cdp. Intanto, i fondi stranieri soci di Atlantia annunciano ricorso contro la decisione del governo italiano di costringere i Benetton a rinunciare al controllo. E l’ultima cosa di cui si ha bisogno in momenti così sono contenziosi legali.
Profitti e perdite
L’utile maggiore fra le partecipate viene oggi al ministero del Tesoro, guidato da Roberto Gualtieri, dalla Cdp: 2,8 miliardi, sebbene in calo dai 3,6 dell’aprile scorso (su bilancio 2018). Seguono con 746,6 milioni pro-quota l’Enel (dai 957 precedenti) e con 573 milioni le Ferrovie dai profitti in crescita (da 474). Poi Leonardo (248 milioni dai 154 precedenti); quindi con 392,7 milioni le Poste (in minimo calo, erano 409). In perdita Mps (705 milioni in meno quest’anno per il Tesoro), la Rai (-71,6 milioni). Autostrade si presenta come un’altro rosso immediato: 268 milioni la perdita nell’esercizio 2019, dicono i dati della relazione economico-finanziaria di Autostrade.
Per non parlare di Tim, che porta sì 38 milioni di profitti e 17 milioni di euro di dividendi a Cdp, ma da quando Cassa vi è entrata in prima battuta con il 4,2% (ora ha il 9,89%), con delibera del 5 aprile 2018, autorizzando un investimento di 650 milioni per il 5%, ha più che dimezzato il valore in Borsa (-55% al 23 luglio 2020).
Nel 1983 l’Iri, gestione Prodi, era ancora in perdita, tornò in utile sempre con Prodi nel 1987 dopo la cessione di 29 aziende tra cui l’Alfa Romeo. Aveva Comit, Credito Italiano e Banco di Roma; Autostrade e Fincantieri, Finmeccanica e la Stet, Finsider e la Rai, le Ferrovie e Alitalia. Tutte vicine al 100%. Oggi il Tesoro e Cdp hanno quote ma in misura molto variegata in Mps e Fincantieri, Tim, Rai, Leonardo, Mps, Poste, Stm, Enel, Eni, Snam, Italgas, Terna, Enav. E la Zecca, il Gestore dei servizi energetici, Arexpo, per dirne alcune. Più i fondi di private equity e venture capital, le 236 partecipazioni a fine 2019 di Simest (+3,6% in un anno) per 615 milioni, dal Pomì alla Palomar che produce Montalbano. E ancora, via Cdp: Open Fiber e Manzotin, Versace e le costruzioni con Webuild, gli alberghi con Th Resort, gli aeroporti (Napoli, Bologna, Torino, Alghero, Milano) con il fondo F2i.
Gli errori
«Si sta creando una nuova Iri di fatto, ma per legge da anni lo Stato non può più fare più attività di coordinamento e controllo, ha meno potere d’intervento formale – dice un dirigente pubblico che all’Iri lavorò a lungo—. Serve una struttura, una classe dirigente che sappia gestire le società, fare i piani industriali, scegliere i migliori manager». Ma è il confronto con l’Iri a essere ardito, sia per contesto storico sia perché l’Istituto per le ricostruzione industriale agiva con logica di controllo, mentre Cdp si muove in modo simile a un fondo di private equity. L’Iri era un ente pubblico finanziato con un fondo di dotazione statale e obbligazioni garantite dallo Stato; Cdp è un intermediario finanziario che raccoglie attraverso il risparmio postale.
Resta il fatto che l’Iri, che ha attraversato fasi più che discutibili, è stato un laboratorio di sviluppo importante. E lo Stato italiano azionista nel XXI secolo è tornato un gigante. Succede anche in Francia e Germania, si pensi a Renault o Lufthansa. Ma affinché gli errori del passato non si ripetano, c’è una sfida multipla da affrontare: sana redditività, separazione dei ruoli tra azionisti e gestione, manager e amministratori capaci, scelti per merito; controlli adeguati, a partire da Autostrade. Più la capacità di lavorare a fianco dei privati, ma sempre con criteri di mercato. Perché se 40 anni fa ci si poteva forse permettere di essere azionisti unici, il mito dello Stato imprenditore non regge e ora senza il patto coi privati la partita è persa. Per evitare l’accusa Ue di aiuti di Stato, certo, ma anche per stimolare le alleanze necessarie (per esempio, in Alitalia).
La vicenda Autostrade farà da cartina di tornasole. «Autostrade è un gioco complicato – dice Innocenzo Cipolletta, economista e presidente dell’Aifi che raduna i fondi di private equity —. Qual è il suo valore? Sarà corretta la remunerazione? E le tariffe come saranno determinate? Andare a investire oggi, da privati, con tutte queste incognite è difficile. Lo Stato deve entrare nelle imprese con le regole del mercato. Va garantito un sistema tariffario che tuteli il consumatore e chi ci ha messo i soldi. Più che un algoritmo sarà necessaria un’attività di controllo che garantisca che non c’è un abuso di posizione dominante».
Fra chi è disponibile a coinvestire c’è, attraverso Pramerica Iter, Vito Gamberale, che guidò Autostrade e non volle venderla agli spagnoli. Al giusto prezzo, certo. Ma, soprattutto in crisi profonde come l’attuale, l’alleanza pubblico-privato appare l’unica strada perché l’ingresso dello Stato porti innovazione e benefici a mercato e collettività.