Corriere della Sera, 27 luglio 2020
Gli incubi di Salemme
Domani riceve al Festival di Benevento il primo premio alla carriera della sua vita: meglio tardi che mai?
«Ho 63 anni e un premio così devi averlo per forza a una certa età», esordisce con l’immancabile ironia Vincenzo Salemme.
Iniziamo dall’adolescenza.
«Sono di Bacoli, Campi Flegrei, l’ho vissuta per strada o al cinema, che era di mio zio e ci andavo gratis tutti i giorni. A 17 anni andai a Napoli e cominciai a fare l’attore, ma in città mi sentivo un intruso, ero il cafone, mi accorsi che il mondo non girava attorno a me, il mio dialetto era diverso, mi sentivo giudicato».
La scelta dell’attore fu per togliersi da quell’impaccio?
«No, fu una scelta naturale. Però ho scritto per il teatro per superare le mie paure, per rappresentare i miei fantasmi, il terrore di essere abbandonato, di non essere accettato».
Da dove nasceva?
«Ero un bambino sonnambulo, mi alzavo di notte, parlavo all’incontrario, avevo un incubo ricorrente, una donna col coltello dietro di me, non ho mai capito chi fosse».
Andò in analisi?
«Sia psicologi che psichiatri, freudiani, junghiani, li ho provati tutti. Il freudiano diceva che era l’incapacità di restare solo».
Sembra tutto fuorché un attore comico napoletano.
«Infatti non lo sono. Da metà agosto comincio un tour teatrale da un mio pamphlet, Napoletano? E famme ’na pizza. Tutto sui cliché della napoletanità. Quando mi presentano in tv dicono: l’attore comico napoletano. Perché non lo si specifica per gli altri? Dal napoletano ci si aspetta la giovi alità, la simpatia, l’essere ritardatario. A Milano o Roma mi dicono: sei di Napoli ma come fai a essere così puntuale? Mi rubarono il cellulare e mi dissero, ti sei fatto fregare tu che vieni da lì. Ho una casa in Toscana e mi dicono sorpresi, come mai? Siamo prigionieri di uno stereotipo, ci si aspetta che facciamo i napoletani».
Però ha un forte rapporto con Pulcinella…
«Non solo, ho fatto un sogno, c’era tutto sangue intorno a me che si ritirava addosso al mio corpo e mi vestiva di rosso e bianco, i colori di Pulcinella».
Ma lei ha un mondo onirico sconfinato.
«Sì, pazzesco, come immaginario è felliniano, le donne prosperose, la tabaccaia».
La comicità napoletana è leggera come si dice?
«Mica tanto, nasce dalla fame, dal disagio esistenziale, è sanguigna, è granguignolesca, Pulcinella è il rosso sangue, un altro Vesuvio pronto a esplodere, è la morte come compagna di vita. Pensi a Eduardo, che come affresco umano lo paragono a Cechov; pensi a Questi fantasmi, che nasce da una storia vera, un uomo che tornava a casa e la moglie gli diceva che l’amante che vedeva uscire era un fantasma. E il marito se ne convinceva».
Cos’è Napoli per lei?
«È Francia, Spagna, Grecia; è nobiltà barbona, ricchezza polverosa, astuzia senza luce; è una cacofonia armoniosa di suoni e voci di paura. Napoli la perdo tutti i giorni e la ritrovo in sogno… Napoli è tanta roba, può diventare mamma Medea…».
Lei e Eduardo.
«Era semplice e severo. Volevo fare la comparsa, mi diede due battute così potevo prendere la paga da attore. Fra tante sue commedie ricordo Il Cilindro con Monica Vitti, io seduto nel buio la vedevo, non visto, che si aggiustava il reggicalze, e mi si fermava il cuore».
Lei e Fazio in tv.
«Gli facevo da spalla: il gioco era quello, tutto improvvisato. Poi è andato scemando, e a quel punto ci siamo fermati. Quest’anno non ci sono mai andato ma la gente mi ferma per strada: l’ho vista domenica scorsa. Non era vero».
Lei e la militanza politica.
«Da ragazzo alle Feste dell’Unità mi facevano vendere pesce congelato spacciandolo per fresco. Protestavo: mi avete insegnato che i comunisti sono onesti! Non ti preoccupare, mi dicevano, è buono come il pesce fresco. Mah, qualche riflessione andrebbe fatta».
Ha scritto «Sogni e bisogni»: oggi quali sono?
«La serenità, l’amore ben vissuto, la libertà di dire a quella festa non vado, come Jep Gambardella in La grande bellezza».