Corriere della Sera, 27 luglio 2020
Intervista a Cristina Giordana
Ha un bell’invocare, il maestro Bepi De Marzi, nel suo canto straziante: «Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna, ma ti preghiamo, su nel Paradiso, lascialo andare per le tue montagne». L’anno scorso il Signore delle cime ne ha chiesti, e lasciati andare, 446. Nel 2018 furono 458. Tanti, troppi. Uno dei 485 morti nel 2017 si chiamava Luca Borgoni. Abitava a Cuneo. Negli ultimi tre anni di vita ripeteva sempre: «Non ho tempo». Fu la nonna per prima a notare quell’intercalare inspiegabile. Che non fu più tale quando a 22 anni si sfracellò sul Cervino dopo un volo di 200 metri. Era l’8 luglio, un sabato. Ma per sua madre è tuttora vivo. Il 21 luglio discusse la tesi di laurea al posto suo. Tre mesi dopo ingaggiò una battaglia con Facebook affinché il profilo di Luca non fosse chiuso. Passato un anno, fece parlare il figlio in prima persona nel libro Portami lassù (Mondadori).
Non bisogna stupirsi: Cristina Giordana è nata da una morte. Quella di sua nonna Emilia Costamagna, caduta dal motorino per colpa di un cane. Nei due giorni di agonia, fu vegliata in ospedale dalla figlia Rosangela. La quale vide arrivare al capezzale Eraldo Giordana, corrispondente da Cuneo della Gazzetta del Popolo. Il giovanotto le chiese una foto della madre con cui corredare l’articolo. Si sposarono nel 1962. E lei finì per abbracciare lo stesso mestiere del marito. «Il suo ultimo articolo per il settimanale La Guida gliel’ho battuto io, sotto dettatura», ricorda Cristina Giordana. «Se n’è andata a 77 anni, precedendo di sei mesi Luca, colpita da un tumore al cervello che le impediva di usare le dita».
Che accadde quell’8 luglio 2017?
«Prima le racconto del 5 luglio. Compivo 52 anni. Il giorno 4 Luca mi annunciò: “Voglio farti un regalo speciale”. Mi portò con sé al bivacco Boerio, in Valle Varaita, per mostrarmi le nubi che, incendiate dal sole dell’alba, diventano d’oro. Da allora non ho più festeggiato compleanni».
Tutti patiti d’alta quota in famiglia?
«Sì, ma noi amiamo la montagna comoda, invernale, con gli sci e gli skilift. Lui adorava quella della fatica, che dura 12 mesi l’anno. Diceva: “Vivere è la cosa più rara del mondo. La maggior parte delle persone esiste, e questo è tutto. Perciò vado in montagna: più per paura di non vivere che per paura di morire. La montagna è il mio habitat, il luogo in cui mi sento libero e felice”».
Invece vi ha trovato la morte.
«Quell’8 luglio partecipava a un vertical sul Cervino. È una gara per superare un dislivello di 1.000 metri in pochi chilometri. Mio marito Vittorio e io lo accompagnammo, invece la sorella Giulia per la prima volta rimase a casa. Salimmo al rifugio Duca degli Abruzzi per vederlo correre, suo padre al traguardo, io 100 metri più sotto. Mi passò davanti ansimante, mi sorrise e mi lanciò la sua borraccia, perché voleva essere più leggero. Fu l’ultima volta che lo vidi».
Che accadde?
«Mio marito tornò indietro da solo: “Luca ha deciso di andare più in su”. Oh, che frase, avrei dovuto comprenderla! Ingordo com’era di montagna, volle mangiarne un altro prezzo, salendo alla Capanna Carrel. Ciò che accadde, lo capimmo solo quando fu recuperato l’orologio con Gps che teneva al polso. Segnava quota 3.800 metri. Il punto di caduta».
Affrontò una parete a mani nude?
«Avevo paura della montagna unita a Luca. Quel giorno agì d’impulso. Il suo amico Davide Gerlero, che lo difendeva da sé stesso, sostiene che il Cervino è friabile. La roccia si sgretolò, Luca perse la presa. Resta la sua foto plastificata che Davide portò in vetta sette giorni dopo».
Chi v’informò della tragedia?
«Avvertii il rombo sordo delle pale di un elicottero. Alzai gli occhi al cielo e vidi che era del 118. Mi assalì la voglia di piangere. Stavo malissimo. Sentii che nostro figlio non c’era più. Mio marito non mi capiva. “Il Cervino non è mica di Luca Borgoni”, reagì. Allora scappai sul retro del rifugio, dove c’è una vecchia croce in ferro battuto, e avvertii il bisogno irrefrenabile d’inginocchiarmi».
Don Oreste Benzi mi disse: «Per stare in piedi, bisogna mettersi in ginocchio».
«Sì, ma c’era tanta gente, mi vergognavo a genuflettermi. Mi accovacciai ai piedi della croce. E lì, sola, incompresa, cominciai a pregare. Un dono enorme, nel momento più importante della vita di Luca. Finché non mi vennero incontro i soccorritori. Fui io a rincuorare loro: ora voi mi direte che avete recuperato un ragazzo sulla ventina, che indossava una maglia verde con una X nera sul petto e le scarpe arancioni: state tranquilli, non mi date una notizia, solo una conferma».
E loro?
«Erano addolorati, poverini. “Non è detto”, balbettavano. Gridai: io so che è Luca! Il medico voleva darmi le gocce. Mai preso tranquillanti, né allora né dopo. La fede è stata la mia medicina».
Chi riconobbe la salma?
«Mio marito, nel cimitero di Valtournenche. Non volevano fargli vedere il viso. Tornando a Cuneo, eravamo angosciati per Giulia, alla quale avevo solo anticipato che c’era stato un piccolo incidente. Su Google lei trovò la notizia, con le iniziali L.B., l’età, la città di residenza. Uno strazio nello strazio, mitigato solo dal cardiochirurgo Marco Agostini, che accorse da nostra figlia. Una persona meravigliosa, più di un parente: in 15 giorni aveva visto in sala operatoria i cuori di mio padre e mio suocero. Di lì in avanti fu tutto un susseguirsi di segni».
Che genere di segni?
«Luca ci fu restituito per il funerale dopo 12 giorni, senza vestiti. Ai necrofori di Valtournenche mandai solo un paio di boxer, perché era molto pudico. A salutarlo c’erano due amici, Henry Aymonod, terzo di tre gemelli, campione di corsa in montagna, e Andrea Vasino, conosciuto a Torino durante gli allenamenti nel Parco del Valentino. Sulla bara, tre stelle alpine, colte ai bordi di un laghetto in cui si specchia il Cervino». (Me le mostra). «Mentre il feretro era in arrivo, si scatenò un nubifragio spaventoso. Luca sta tornando a casa, sussurrai a mio marito e a mia figlia. Quando il carro funebre entrò a Cuneo, comparve sulla città un arcobaleno d’incredibile bellezza. Insegno scienze naturali e so che è un fenomeno comune. Però rimasi colpita da quel sincronismo perfetto. Sarebbe potuto apparire il giorno prima o quello dopo».
Ha parlato di «segni», al plurale.
«Mentre sfiorava la bara, all’amico Luca Benzi giunse sul cellulare la notizia che mio figlio aveva vinto il premio Mountopia, 8.000 euro che gli avrebbero permesso di coronare il suo sogno: scalare il Dhaulagiri, nella catena dell’Himalaya, 8.222 metri, la settima montagna più alta della terra. Al suo posto ci andò Davide Gerlero tre mesi dopo. Svuotò il conto in banca per pagarsi il viaggio. Teneva sul petto una foto di Luca, che lasciò sulla cima. Vuole che continui?».
Sì, la prego, sono stupefatto.
«Mio marito si è sempre dichiarato ateo. Durante la veglia funebre, prese la parola a sorpresa. Si sedette a fianco del feretro: “Luca, io ti ringrazio, perché non ho mai creduto, ma devo dire che tu ci dai segni che mettono in crisi il mio scetticismo”. Giulia mi chiese: “Ma papà sta bene?”. Mentre andavamo a ritirare le ceneri di mio figlio, l’autista del carro funebre ci confidò: “Lo sapete che durante il viaggio dalla Val d’Aosta il diluvio ha fatto chiudere tutti i caselli autostradali tranne quello di Cuneo?”».
Ha scritto un libro su Luca facendolo parlare in prima persona, come se lui fosse l’autore. Non è stato un arbitrio?
«Capisco che potrebbe apparire un’esaltazione. Però mi è venuto istintivo. Fra di noi l’empatia non è mai cessata».
Poi si è sostituita a lui su Facebook.
«Mi aveva dato le credenziali di accesso. È stato un modo per comunicare agli amici il giorno del funerale e rispondere alle loro domande. Ignoravo che per poterlo fare Luca avrebbe dovuto nominarmi in vita suo “contatto erede”. Dopo tre mesi, un sabato sera è apparsa la scritta “Profilo commemorativo”, circondata dai fiorellini bianchi e azzurri del lutto. Per un attimo mi si è fermato il cuore».
«Vedersi recapitare messaggi e post da un defunto, se può essere consolante per un familiare, può invece avere un impatto traumatico su altri», ha scritto il gesuita Giovanni Cucci, parlando di lei sulla «Civiltà Cattolica».
«Giusto. Ma tutti erano liberi di seguire o no il profilo di Luca. Non si trattava di una pubblicità che t’irrompe in casa».
Padre Cucci ha posto «il dubbio se il defunto desideri continuare a sopravvivere sotto questa forma o se invece non preferisca morire anche digitalmente».
«Un conto è la morte fisica, un altro il ricordo. Giacomo Leopardi non continua forse a parlarci con le sue poesie?».
Laurearsi al posto suo non fu troppo?
«L’idea non venne a me, ma alla relatrice, la professoressa Cinzia Bertea della facoltà di Scienze biologiche di Torino. Me la propose dopo il funerale. Avevo aiutato mio figlio a preparare la tesi».
Non starà vivendo una vita che non le appartiene?
(Si stupisce). «Io? No, è solo una profonda esperienza d’amore, che testimonia come questo sentimento sia eterno».
Suo figlio aveva una fidanzata?
«Si era invaghito più volte di ragazze impossibili, tutte al top. Una di loro mi ha scritto ieri: forse andrà alle Olimpiadi per il salto con l’asta. Luca era uno tsunami, speravo tanto che trovasse un’anima gemella capace di acquietarlo».
Lo ha rivisto qualche volta in sogno?
«A tre mesi dalla morte. Era una statua candida, però in movimento, circonfusa di luce. Incubi non ne ho mai avuti. Forse perché fin da subito mi sono affidata a Maria. Anche lei perse il figlio».