la Repubblica, 27 luglio 2020
Quando la chiamavamo “Maffia”
Ci sono nomi che tornano sempre, inesorabilmente anche dopo cent’anni. Nomi e cognomi di nonni e bisnonni e trisnonni, antenati di quei personaggi che affollano certe cronache di oggi su ammazzatine, misteriosi roghi e infide “messe a posto”, quelle che i malcapitati di una volta conoscevano meglio come “lettere di scrocco”. Il pizzo non ha età e la mafia non cambia mai. O meglio, anche se all’apparenza potrebbe sembrare una contraddizione, sarebbe più giusto dire che la mafia è sempre diversa pur rimanendo se stessa. Non è un’acrobazia linguistica.
Se per esempio prendiamo l’elenco dei componenti di un’associazione a delinquere di Palermo datata 1898 e lo confrontiamo con un altro elenco di un’associazione a delinquere di Palermo dell’estate del 2020, in mano avremo la prova che generazione dopo generazione la “mala pianta” è ancora lì e che si riproduce con spaventosa ciclicità. E proprio per quei nomi. Sempre gli stessi: «Albanese... Brusca... Bonura... Cocuzza... Cinà... Ferrante... Fontana... Graziano... Lo Cicero... Puccio...». Con il passare dei decenni quella parola ha perso per strada una “effe” – c’era scritto “maffia” quando compare per la prima volta in un atto ufficiale dello Stato italiano, il 25 aprile del 1875 – ma ha mantenuto intatta la sua natura e la sua struttura, otto erano i mandamenti mafiosi (la zona d’influenza di più famiglie) nella Palermo dell’Italia appena fatta e otto sono i mandamenti della cosa nostra contemporanea fra le borgate di Settecannoli e Passo di Rigano. Torbide erano le relazioni fra l’onorevole Raffaele Palizzolo – accusato di essere il mandante dell’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo, direttore generale del Banco di Sicilia ed esponente della destra che avversava Crispi – come altrettanto loschi sono gli intrecci fra un bel po’ di uomini politici odierni con i capi dell’organizzazione criminale. Passato e presente si rincorrono e trovano forma in una ponderosa ricerca che è diventata documento prezioso, storia e attualità che si intrecciano in un “mondo di mezzo” che esiste almeno da quando Garibaldi è sbarcato a Marsala.
L’opera comprende tre volumi. Il primo è una raccolta dei più famosi dossier sulle mafie di fine Ottocento vergati dal questore Ermanno Sangiorgi, il secondo è un’appendice con le 31 relazioni inoltrate dal questore al procuratore del Re. Il terzo volume fa un salto in avanti nel tempo – 1971 – e ripropone tutte le carte che sono confluite nel cosiddetto “rapporto sui centoquattordici”, l’atto di denuncia contro i boss come risposta investigativa all’uccisione del procuratore di Palermo Pietro Scaglione, il primo magistrato assassinato nel dopoguerra.
I libri portano il logo della Dia e il curatore dei tre volumi è il generale dell’Arma Giuseppe Governale, che della Direzione investigativa antimafia è il direttore. Scavando negli archivi di Stato, cercando nei sotterranei di caserme e tribunali, rovistando negli schedari della commisione parlamentare antimafia è saltato fuori un tesoro di informazioni che ci catapulta dentro l’essenza più profon da dell’associazione segreta e ci spiega perché, dopo qualche secolo, siamo sempre qui a fare i conti con noi stessi. Scritti che testimoniano una verità un po’ dura da accettare: nelle vicende di mafia non c’è mai nulla di inedito. Nella sua introduzione il generale Governale cita Tommaso Buscetta e il 1984, quando il boss scelse il pentimento. Finalmente, grazie a lui, pensavamo di avere scoperto la mafia. «I fatti non stanno esattamente così», annota il generale ricordando le rivelazioni del mafioso su capifamiglia, capidecina, rappresentanti provinciali e sopra tutto e tutti la Cupola. E ricorda: «Già dalla fine dell’Ottocento numerosi sono stati gli approcci investigativi, gli accertamenti dell’autorità giudiziaria che hanno delineato un quadro in cui si intravedevano i tratti dell’organizzazione: le strutture gerarchiche, le procedure ed anche la mentalità, il senso di appartenenza, la forza intimidatoria».
Quello che a metà degli anni Ottanta il popolo mafioso venerava come il “presidente della commissione”, nei rapporti del questore Sangiorgi era conosciuto come il “capo regionale” o “capo supremo”. Se poi, dopo Buscetta, le cose sono andate come sono andate è pacifico che lo dobbiamo al genio di Giovanni Falcone. Le relazioni inviate alla procura del Re sembrano “informative” trasmesse ieri l’altro. Ce n’è una, del 21 novembre 1898, che è assai eloquente. Oggetto: “Associazione a scopo di delinquere per gli omicidi qualificati di Lo Porto e Caruso”. La vicenda descritta è semplice. I Noto, capimafia del rione Olivuzza, avevano mandato “lettere di scrocco” a Giosuè Whitaker, rampollo della famosa famiglia inglese originaria del West Yorkshire che si era trasferita in Sicilia per produrre e commerciare vino marsala insieme agli Hopps, agli Ingham e ai Woodhouse. Gli esattori del racket erano proprio quel Lo Porto e quel Caruso, due cocchieri che poi non soddisfatti «della porzione loro toccata... perpetrarono un furto di oggetti d’arte di molto valore in danno del Commendatore Florio».
Proprio lui, Ignazo Florio, il padrone di Palermo, «presso il quale stavano a servizio Pietro Noto, nella qualità di guardaporta, e il fratello Francesco come giardiniere». Ignazio Florio manifestò la sua indignazione per l’offesa subita ai Noto che, nonostante la restituzione della refurtiva al commendatore, «accusarono i due cocchieri al tribunale della mafia per insubordinazione, per fellonia e per mancato contributo delle loro frequenti ladrerie». I cadaveri di Lo Porto e Caruso, la sera del 24 ottobre 1897, furono trovati all’Arenella. L’ultimo volume della raccolta riporta a un passato relativamente recente ma è anche un omaggio al generale Dalla Chiesa, che in Sicilia è stato tenente a Corleone nel 1948, comandante della Legione territoriale dei carabinieri di Palermo fra il 1966 e il 1973 e prefetto nel 1982 dove trovò i killer ad aspettarlo.
È la pubblicazione di quattro rapporti che poi confluirono in uno solo che fu chiamato «dei centoquattordici», dal numero degli indiziati. Anche qui nessuna sorpresa fra i nomi di mezzo secolo fa: «Stefano Bontate, Giuseppe Calderone, Gaetano Badalamenti, Natale Rimi, Salvatore Riina». Tradizione rispettata.
Ma quest’ultimo documento racconta qualcosa di più, non sulla mafia ma sullo Stato. Già nel 1971 a redigere quei rapporti erano tutti insieme ufficiali dei carabinieri e funzionari di pubblica sicurezza, nella quarta di copertina si leggono le loro firme: colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa e commissario capo Boris Giuliano, capitano Giuseppe Russo e vice questore Emanuele De Francesco. Già allora – ed era ancora lontana la legge sul coordinamento delle forze di polizia – c’era uno spontaneo “gruppo interforze” che combatteva la sua guerra contro la mafia. Una necessità per far fronte comune, per non restare isolati davanti al potere dei boss. Sarebbe accaduto anche una decina di anni dopo quando, nel 1982, polizia e carabinieri (anche qui le firme dei commissari Antonino Cassarà e Giuseppe Montana e del capitano dell’Arma Angiolo Pellegrini) presentarono al giudice Falcone il dossier su “Greco Michele + 161». Praticamente l’origine del maxi processo.