La Lettura, 26 luglio 2020
Come si fa una regia (e come non si fa)
Questa cronaca del festival di Napoli diretto da Ruggero Cappuccio, che si incrocia con Scena Aperta programmato dal Mercadante, è condizionata da sentimenti e risentimenti tra loro i più disparati. Una troppo lunga assenza dal teatro: desiderio e nostalgia; ma nello stesso tempo: assuefazione e abitudine a farne a meno, brama che nulla ricominciasse come prima. Poi, all’improvviso, il diluvio di inviti, da ogni dove rassegne tutte uguali: un attore, massimo due; nessun autore conosciuto, o quasi nessuno; titoli, sconosciuti tutti; classici zero, repertorio zero. Basterebbe leggere il calendario di Romaeuropa, la rassegna più prestigiosa, per capire ciò che intendo.
Infine, la questione del Piccolo e del Teatro di Roma. Al Piccolo, tutto regolare: ma per la successione a Sergio Escobar vengono indetti referendum tra i più assurdi: chi vorreste a dirigerlo? Ed ecco comparire (ignoti i votanti) i nomi più improbabili. A Roma, il contrario: tutto strambo. Il direttore generale da scegliere non solo comporrà un’inverosimile quaterna dirigenziale (per ora formata da un direttore operativo e da due consulenti artistici, uno all’Argentina e uno all’India), ma il potere di nomina del consulente artistico (o dei consulenti artistici), secondo statuto, toccherebbe proprio al direttore generale, il quale potrebbe perfino decidere di non averne nessuno. Il nuovo direttore generale, insomma, assumerà una carica senza averne i poteri.
Ecco perché il seppur cauto sollievo con cui ci si avvicina al cortile del Palazzo Reale per assistere a uno o due spettacoli che si annunciano come tradizionali all’improvviso diventa gioia, entusiasmo, commozione. Ma che cosa precisamente, mi ha commosso, entusiasmato? Non proprio il testo di Patrick Marber, ciò che ascoltavo e che avevo letto il giorno prima, la commedia intitolata The Red Lion. Marber lo conoscevo, avendolo apprezzato come regista al National Theatre di Londra, e come autore di Closer (da cui il film del 2004 di Mike Nichols) e di La scelta del mazziere, sua opera prima messa in scena da Antonio Zavatteri per lo Stabile di Genova con il titolo Poker.
Avevo stimato meno, alla lettura, The Red Lion, in quanto tradotto in dialetto napoletano. Come mi accadde per il Macbeth tradotto in sardo, mi innervosiva questo uso quasi «sovranista» della lingua. E tuttavia, fin dalle prima battute, o addirittura dalla prima scena, una certa inclinazione al sospetto scemava, declinava. E mentre la vicenda procedeva, sempre più mutava il mio stato d’animo.
La lingua non aveva che un’importanza relativa. Era la semplice presenza fisica di Nello Mascia, il suo modo di abbracciare lo spazio, la sua fisicità antica, i suoi gesti (stirava magliette di giovani calciatori), i suoi arruffati capelli bianchi – era questo a commuovermi. E ad entusiasmarmi fu l’ingresso del suo elegante interlocutore Andrea Renzi: il primo un «uomo di bottega», il secondo il Mister di una squadra giovanile di calcio.
Il loro dialogo, poi il loro accordo, poi la loro disputa, il loro contendersi la giovane promessa (l’atletico, possente Lorenzo Scalzo) avevano un’importanza relativa. Lo ebbe, alla fine, anche il loro fallimento, il naufragio dei loro imbrogli. Entrambi a contendersi quanto di meglio si sarebbe potuto ricavare da quel gioiello di calciatore in erba, senza andare troppo per il sottile riguardo ai mezzi Rosario (Andrea Renzi) e difendendone le qualità naturali Gaetano (Nello Mascia); ma tutti e tre coinvolti nella stessa faccenda.
Non era proprio il ragazzo a usare infiltrazioni illecite per risolvere un problema al ginocchio destro? Tutti e tre, alla fine, messi fuori gioco da un Presidente non disponibile ad alcun imbroglio.
Non era questa comune storia di malaffare a essere importante, né la sua veridicità dialettale. Erano, lo ripeto, la sapienza sottile di Nello Mascia, il continuo, incessante mutare d’abito, di voce, di gesti di Andrea Renzi, la stessa abilità (reale) nel trattare il pallone di Lorenzo Scalzo a produrre l’effetto che il vero teatro produce: dare sorpresa, intensità, dramma, vita a un testo scritto.
Ecco, mi dicevo, il teatro è questo prima d’ogni altra manipolazione/invenzione di segni.
Non ho fin qui scritto il nome del regista Marcello Cotugno di questo commovente spettacolo perché la sera dopo Le eccentricità di un usignolo con la regia di Sarah Biacchi era l’esatto opposto: delusione, tristezza. Un’autentica offesa al genio del suo autore Tennessee Williams. In che senso? Qual è il rapporto tra i due spettacoli ovvero tra le due regie?
Quella di Marcello Cotugno sceglieva una fedeltà al testo più che una interpretazione «rivoluzionaria». La presenza di Cotugno era pari a quella di un attore invisibile, anche lui in scena, a suggerire movimenti, azioni e figure: intrinseco a ogni accadere.
L’esatto contrario la regia di Sarah Biacchi. Non conoscevo questo nome. Ho letto, scritto da lei stessa, il suo curriculum, quasi una biografia, anzi una storia. Sarah Biacchi debuttò ancora adolescente come Miranda ne La tempesta diretta da Gigi Dall’Aglio. Lavorò poi con il Teatro Due di Parma e con il Teatro di Genova. Fu soprano lirico e dopo numerose interpretazioni in testi più o meno importanti approdò tra le braccia del maestro Nekrosius.
Come non aspettarsi qualcosa di prezioso da uno spettacolo la cui regista è anche protagonista e la cui protagonista è proprio l’usignolo del titolo, che l’autore scrive debba cantare due arie d’opera e una canzone moderna?
Le eccentricità di un usignolo è una riscrittura di Estate e fumo (1948). L’usignolo del titolo, Alma, è figlia di un pastore e di una madre psicologicamente disturbata. Inutile dire che la vita di Alma subisce sia l’alienazione della madre che la pressione perbenista del padre.
Anche Alma si rivela, ancor più della madre, un tipico personaggio di Tennessee Williams. Rispetto allo stile di vita della comunità in cui vive, appare una «straniera», sommersa dalle proprie emozioni e dai suoi desideri.
L’incontro con il giovane John è un colpo di fulmine, mette a fuoco la sua vocazione più profonda: quella di cantare era desiderio di amare. Alla fine Alma, tra mille trabocchetti, smorfie, leziosità, seduce un John che non capiamo bene quanto sia disponibile o sua semplice vittima. La vittima fatalmente diventerà carnefice. L’usignolo, schiacciato dal piede di John, smetterà di cantare. L’adorazione, piuttosto che l’amore, è la vera musa di Tennessee Williams.
Qual è il problema dello spettacolo? Molto più che l’inadeguatezza degli altri quattro attori e la futilità (l’elementarità) di una scenografia corredata da videoproiezioni è proprio l’interpretazione di Sarah Biacchi. Muove in modo incontenibile braccia, mani e dita. Incrocia i piedi come insegnano nelle scuole di recitazione, sembrerebbe al fine di imitare un uccellino. Né voce, cadenze e timbri, giustificano una così ingombrante presenza. Insomma, lo spettacolo è la messa in atto di una regia pretenziosa, ciò che nessuna regia, è implicito, dovrebbe essere.
Come si giustifica la scelta di un simile spettacolo nel festival di Napoli? La risposta me la dà il direttore del festival parallelo Scena Aperta, Roberto Andò, incontrato per caso a cena. In questo momento abbiamo tutti, prima di stabilire gerarchie estetiche, un problema sociale. Concetto che così traduco: a causa del difficile momento, per il teatro, per chi lo fa, si può capire l’idea di non operare selezioni ma di offrire opportunità di lavoro a quante più persone, o compagnie, possibili.