La Lettura, 26 luglio 2020
Intervista John Douglas, famoso profiler dell’Fbi
All’inizio non c’erano neanche le parole. Termini come serial killer o fattore di stress non esistevano. L’idea di studiare la mente criminale per prevenire altri delitti era, per molti inquirenti, balzana. Il contributo decisivo è arrivato da John Douglas, 75 anni, leggendario profiler dell’Fbi e autore con Mark Olshaker di Mindhunter, il true crime che ha ispirato l’omonima serie di Netflix diretta da David Fincher, considerata tra le migliori degli ultimi anni. A Douglas, oggi in pensione, s’ispirano il personaggio di Jack Crawford (interpretato da Scott Glenn) nel Silenzio degli innocenti (1991, dal bestseller di Thomas Harris) e quelli di Jason Gideon e David Rossi in Criminal Minds (2005-20). In Mindhunter, che ripercorre i primi passi della Behavioral Science Unit (Bsu) dell’Fbi, Douglas è Holden Ford (Jonathan Groff). Ora è uscito in Italia il nuovo libro, Faccia a faccia con l’assassino (HarperCollins).
In Francia è stato da poco arrestato un uomo. Studiando i suoi libri era riuscito a impersonare un «profiler» per 10 anni. Oggi il «true crime» pervade la cultura popolare. Se l’aspettava, mezzo secolo fa?
«Sicuramente no. Avevo 27 anni quando iniziai a occuparmi di scienza del comportamento criminale, il più giovane su 1.200 agenti. Negli anni Settanta anche i più esperti non conoscevano i casi molto bene e c’erano le cosiddette road school: istruttori che giravano gli Stati Uniti per insegnare psicologia criminale nei distretti di polizia. Allora contavamo 35-50 serial killer attivi. Oggi, in qualsiasi momento, ce ne sono 2 mila».
Una scienza che si è molto evoluta.
«Negli anni Ottanta si credeva che il criminal profiling riguardasse solo gli stupri e gli omicidi a sfondo sessuale. Col tempo, le nostre tecniche sono state applicate agli incendi dolosi e al terrorismo. Per molti serial è una questione di potere e di controllo. Molti hanno subito abusi nell’infanzia».
Conosciamo il Bau, come si chiama oggi il Bsu, da «Criminal Minds», serie tv spesso accusata di pornografia dell’orrore. I serial killer sono davvero così?
«No. Criminal Minds è un’opera di finzione. Innanzitutto non c’è un Bau ma ce ne sono 5, divisi per tipologie di reato. Dipendono dal National Center for the Analysis of Violent Crime, che io ho diretto. Le procedure descritte, poi, sono spesso sbagliate: non esistono squadre di profiler che volino dappertutto con l’aereo privato. Ho visto Mindhunter perché è tratta dal mio libro ma le altre serie non le guardo mai. C’è troppa enfasi sui criminali, zero sulle vittime. Uno come Hannibal Lecter non è mai esistito. E anche Buffalo Bill, nel Silenzio degli innocenti, era un collage di vari serial killer. Questi individui non sono così furbi come il cinema e la tv li fanno. La maggior parte ha un’intelligenza nella media, alcuni inferiore. Spesso sono incompetenti i detective».
Perché il peggio della natura umana affascina tanto?
«È come con un incidente stradale, quando tutti si fermano a guardare. Oggi spopolano le crime con, le conferenze sul crimine. Ma all’80% i partecipanti sono donne. Perché donne sono quasi sempre le vittime, e vogliono imparare a proteggersi».
Ha mai la tentazione, quando incontra qualcuno, di farne il profilo?
Ride: «No, anche se quando porto fuori il cane mi capita di osservare un luogo, come un fosso o un dirupo, e pensare che sarebbe il posto giusto per gettarvi un cadavere».
Com’è nato «Mindhunter»?
«Stavo per andare in pensione, a metà degli anni Novanta, quando ho conosciuto Mark, che stava girando un documentario su di noi. Ho pensato che potesse venirne fuori un libro. Quando è balzato al primo posto in classifica, ci hanno fatto un contratto per altri 5 libri. Anche la serie, però, si prende delle licenze poetiche. Durante i colloqui con i serial killer, per esempio, io non registravo quasi mai né prendevo appunti. Non è un interrogatorio: per ottenere qualcosa devi metterli a loro agio».
Ma come si fa a restare impassibili mentre un serial killer ripercorre i propri delitti?
«S’impara. Io non vado mai in collera quando descrivono i propri reati. Anzi, spesso rido con loro. Il profiler deve raccogliere informazioni cruciali in pochi minuti e questo vuol dire, in un certo senso, sedurre il serial killer. E quindi la falsa empatia, farli sentire importanti, rispondere alle loro domande. Per capire cosa avesse precipitato gli eventi, cosa avesse fatto dopo, se fosse tornato sul luogo del delitto. Dopo un po’ inizi a pensare come loro, e puoi insegnarlo agli altri».
E se rifiutano d’incontrarla o di rispondere?
«Nessuno si è mai rifiutato. Molti non vedono l’ora di raccontarsi».
Ma come si torna dai propri cari, alla sera, dopo aver incontrato un serial killer? Come riesce a separare le cose, sempre che ci si riesca?
«Quand’ero più giovane facevo moltissimi incubi, nei miei libri lo racconto spesso. Se hai una famiglia, poi, il rischio di confrontarsi quotidianamente con certe violenze è quello di diventare insensibili a tutto il resto. Torni a casa dal lavoro, scopri che tuo figlio si è fatto male giocando ma sottovaluti la cosa perché quello che vedi ogni giorno è di gran lunga peggiore. Quando avevo 38 anni, per lo stress ho sfiorato la morte. Un collasso in albergo, mi hanno trovato sul pavimento: tanta era la pressione per mettere a punto una nuova tecnica. Sono rimasto in coma per una settimana, il lato sinistro del corpo paralizzato. Sono uscito dall’ospedale in sedia a rotelle, sfiduciato e infuriato con l’Fbi per la mancanza di personale. Finalmente, quando 5 mesi dopo sono tornato al lavoro, mi hanno dato una squadra».
Il criminale più feroce con cui ha avuto a che fare?
«Lawrence Bittaker e Roy Norris, noti come i tool-box killer perché nei loro reati utilizzavano strumenti della cassetta degli attrezzi, la tool-box appunto, come martelli e cacciaviti. In 5 mesi, nel 1979, rapirono, stuprarono, torturarono e uccisero 5 adolescenti in California. Allora l’autostop era molto in voga: loro giravano con un furgone e registravano torture e omicidi per poi riascoltarli davanti a una birra. Gente così, dopo che l’hai incontrata, non te la togli più dalla testa. Diventi paranoico: fai il terzo grado al ragazzo di tua figlia, ti metti a pedinarlo…».
Lei vive in Virginia, seconda solo al Texas per esecuzioni capitali. È possibile riabilitare un serial killer?
«No. Sono così da sempre, distinguono perfettamente il bene dal male e agiscono secondo la propria volontà. Sono anche grandissimi manipolatori e alla Commissione di revisione della pena diranno che non sentono più quelle pulsioni, mentre per tutto il tempo fantasticano di uccidere di nuovo. Bittaker nei colloqui era emotivo, piangeva. Ma i serial killer non piangono mai per le vittime. Piangono per sé stessi, perché non possono più uccidere o stuprare. Non provano rimorso. Per loro quelle non sono vittime ma omicidi giustificati».
Si parla spesso di bambini sociopatici e psicopatici. Ma è giusto definirli così?
«Purtroppo i segnali si vedono presto. A volte sono i bulli della scuola, altre sono loro stessi i bullizzati. Hanno comportamenti distruttivi, come le torture di animali, oggi considerate indicatore importantissimo di un futuro serial killer. Un altro indicatore è la violenza domestica. Spesso, commettono il primo omicidio attorno ai vent’anni. I primi delitti non sono perfetti ma imparano velocemente».
In tutti gli Stati Uniti ci sono più di 200 mila omicidi irrisolti. Perché molti serial killer non vengono catturati?
«Perché le forze dell’ordine sono divise in 17 mila agenzie, che spesso competono tra loro e non condividono le informazioni. Ma prima un serial killer era chi faceva 3 o più vittime, ora ne bastano 2. In media viene risolto il 57% degli omicidi ma in città come Chicago solo il 20%. Un altro problema sono le grandi distanze».
Ha intervistato i serial killer più famigerati. Chi ancora le manca?
«Ted Kaczynski, l’Unabomber. Con lui l’Fbi ha sbagliato molto. Analizzando le sue lettere se ne intuiva il background in fisica e chimica. Ma poiché le prime bombe erano state realizzate con materiali usati dai meccanici di aeromobili, per anni si è creduto che fosse un colletto blu».
Adesso a che cosa sta lavorando?
«A un nuovo libro sul suprematista bianco Joseph Paul Franklin, colpevole di delitti a sfondo razzista».
La maggior parte dei serial killer sono maschi bianchi. Perché?
«Ce sono anche di neri ma una serie di motivi ne ha spesso impedito l’identificazione. Quando nel 1981 conclusi che il serial killer di bambini di Atlanta era nero, ne nacquero moltissime polemiche. Sam Little, arrestato nel 2012, è un altro esempio. Ha ucciso quasi 100 persone, anche perché l’Fbi non aveva un sistema per tracciare i casi irrisolti».