La Lettura, 26 luglio 2020
Censimento delle statue in Italia
E poi, mentre la città dorme, le statue scendono dai piedistalli. «I grandi uomini che durante l’anno stanno immobili in mezzo al viavai dei veicoli e dei pedoni, dopo essersi distesi le membra, s’incamminano prudentemente verso quella famosa piazza Castello ove hanno luogo i loro misteriosi conciliaboli». Sotto «il cielo purissimo dell’autunno» si vede «Lagrange, lo scienziato pensoso, che s’appoggia al braccio robusto del colonnello Missori. Si vede il re Vittorio Emanuele II discutere di strategia con Emanuele Filiberto…». Nel 1919, a Torino, Giorgio de Chirico si diverte a immaginare: le figure che lui stesso mette nei quadri si animano, si stiracchiano e vagano. Un sogno a occhi aperti racconta come sarebbero le città se improvvisamente il popolo scolpito che le punteggia se ne andasse: desolate.
La suggestione cent’anni dopo resta attuale, con alcuni di quei personaggi finiti nel mirino planetario di movimenti antirazzisti nati in America e poi seguiti da una scomposta furia iconoclasta: cade Cristoforo Colombo a Minneapolis, si ritrova sfregiato Winston Churchill a Londra, secchiate di vernice colpiscono Indro Montanelli a Milano, «sbombolettate» (definizione a uso social dei vandali) contro Vittorio Emanuele II a Torino. Icone della storia umana sino a ieri, si ritrovano oggi ree di colonialismo e antidemocrazia. «Le contestazioni sono sempre esistite, ma si restava in ambito locale. Per la prima volta, ora, il fenomeno è globale»: Giovanni C. F. Villa fa parte del Consiglio superiore per i Beni culturali del Mibact. Al «popolo di marmo e bronzo» (ancora parole di de Chirico) si dedica da una vita. Una passione di famiglia, tanto che proprio con suo padre Renzo Villa, storico delle scienze mediche, sta per dare alle stampe Statue d’Italia, un volume frutto di 15 anni di lavoro che scheda e racconta 2 mila opere celebrative su e giù per il Paese. Perché odiate, amate, restaurate o trattate come tappezzeria urbana, le sculture più diverse incarnano l’identità di luoghi e nascondono testimonianze. «Fra strade, piazze e parchi c’è il più esteso museo della nazione. È enorme — solo per il conflitto del 1915-18 si contano oltre 150 mila pezzi — tanto da non essere mai stato censito in modo organico». Taccuino alla mano, un occhio in particolare al periodo fecondissimo fra Risorgimento e Grande guerra, i due studiosi hanno dato veste analitica «a ciò che da sempre facevamo per abitudine e curiosità». Ne è nato un affresco in cui ogni tassello parla di epoche, gusto, aneddoti, simboli e crisi della società. Ecco, regione per regione, alcune di queste storie (spesso) dimenticate.
Il viaggio del Duca
La statua in bronzo di Ferdinando di Savoia, duca di Genova, è a Torino, in piazza Solferino. Vittorio Emanuele II la commissiona nel 1862 in ricordo del fratello. Alfonso Balzico lo ritrae in battaglia, con il cavallo ferito: posa complicata che impone un anno di studi nei mattatoi equini. Difficile anche la fusione, perché solo Firenze ha fucine adatte. Quando le operazioni si concludono (è ormai il 1870) inizia un nuovo psicodramma: la scultura pesa 10 tonnellate e riportarla a Torino è un’impresa. Scartato il carro ferroviario (un modello in legno si disfa in galleria), il Genio militare offre le locomotive stradali usate per i cannoni. La carovana arriva a 160 tonnellate e per farla marciare si abbattono alberi, si fanno e si smontano ponti. Inaugurazione il 3 giugno 1877: Torino festeggia il Duca e la prima manutenzione generale dei tracciati per la Toscana.
Un re cacciatore
Vittorio Emanuele II ad Aosta è le roi chasseur, il re cacciatore, arrampicato su una piramide di sassi. Una scelta iconografica bizzarra. Il sovrano ha appena catturato uno stambecco. Presentato il 4 luglio 1886, tutt’uno con la nuova stazione dei treni, è di Antonio Tortona. La giubba scolpita detta moda: diventerà la divisa dei guardacaccia del Gran Paradiso.
Rissa a Padova
Notte tra 14 e 15 febbraio 1723, Padova. Una ronda sequestra armi a quattro universitari. La mattina dopo i ragazzi si presentano al palazzo del Capitaniato per farsi restituire il maltolto. I gendarmi li puntano: nuova rissa, due vittime. L’intervento della Repubblica di Venezia è immediato con 19 sbirri arrestati. Resta una lapide in cui la Serenissima ricorda «la Pubblica costante protezione verso la prediletta Università». Dall’episodio scaturisce l’idea di Prato della Valle: una piazza grandiosa in cui 78 statue celebreranno anche l’ateneo.
Il leone in fuga
Il Monumento alle Cinque Giornate, oggi nella piazza omonima di Milano, nato per Porta Vittoria, ha una lunga gestazione. Il primo bando è del 1879, stanziamento 500 mila lire. Si chiede «un’opera architettonica che rappresenti una nuova porta della città»: degli 84 progetti, l’unico che non rispetta i requisiti è il preferito dai giudici. La proposta è di Giuseppe Grandi. Stallo. Poi gli altri vengono indennizzati e lui vince davvero perché, scrive la commissione, «sa far fremere le allegorie delle Giornate ansiose ed eroiche». Nel gruppo un obelisco, fanciulle, un’aquila, un leone. Si parte nel 1881, poi 13 anni di cantiere. Grandi assume cinque modelle ma soprattutto recupera un leone vero. La nota è dello scrittore Carlo Dossi: «Lo scultore aveva comprato ad Amsterdam un leoncino per copiarlo, e poiché gli occorreva che apparisse belva feroce e non pelle impagliata da Museo zoologico, lo eccitava in ogni maniera. Inenarrabili i tiri, gli scherzi che gli faceva. A forza di questo trattamento il leone era diventato addirittura feroce». Tanto che «a un certo punto squassò orrendamente la gabbia». Simulacro consegnato nel 1894. Si ignora la fine del leoncino.
Il fantasma dell’eroe
L’ultimo censimento, voluto da Bettino Craxi, conta in Italia 1.500 omaggi a Garibaldi. Quello di Savona, però, è unico. Qui c’è «il fantasma dell’eroe», dice l’autore Leonardo Bistolfi, teorico del Modernismo. Solitario su un cavallo senza bardatura, il condottiero diventa onda, plasmato in un blocco «che conserva il carattere delle rocce del mare, il vicino mare sul quale il gruppo deve apparire come una visione fuggente». Nel 1913 l’artista si fa avanti con il sindaco, nel 1928 arriva l’incarico.
Trento e Bolzano, gara fra poeti
Colletta numero uno: cittadini tirolesi, tedeschi e austriaci. Colletta numero due: sessanta municipalità italiane. La prima dà i suoi frutti il 15 settembre 1889, quando nel salotto buono di una Bolzano allora austriaca, Maximiliansplatz, compare la statua a Walther von der Vogelweide (firma di Heinrich Natter), massimo cantore dell’amor cortese in lingua germanica. Immediata la reazione nella vicina Trento che, ugualmente austro-ungarica, decide di puntare sull’icona dell’italianità, colui che tramite la lingua unisce: Dante. Il Ghibellino è di Cesare Zocchi: alto 18 metri, sbaraglia 42 progetti concorrenti. Debutto l’11 ottobre 1896.
Verdi nato due volte
La statua di Giuseppe Verdi, a Trieste, nasce due volte. Consegnata da Alessandro Laforêt, viene installata nel 1906 in piazza San Giovanni. Per i triestini, in quel momento ancora sotto Vienna, Verdi non era un simbolo solo per la sua musica: inneggiare a lui voleva dire inneggiare e sintetizzare l’anima dell’irredentismo giuliano. Viva Verdi era «Viva Vittorio Emanuele Re D’Italia». Un acronimo non certo segreto. Tanto che il 23 maggio 1915, quando circola la notizia che l’Italia in guerra si va schierando con i nemici di Austria e Germania, il monumento è uno dei primi a far le spese delle tensioni (a proposito di furia iconoclasta): i filo-austriaci si accaniscono nottetempo a colpi di martello. Saltano il volto, i piedi, il vestito. Dopo il conflitto, però, Laforêt torna in campo. Oggi ritroviamo il compositore al suo posto. Non è più in pietra, bensì in bronzo: nella fusione si usano i cannoni austriaci.
L’esploratore
Vittorio Bottego, esploratore del Corno d’Africa, sta davanti alla stazione della natia Parma. Firmata da Ettore Ximenes nel 1907, la scultura incarna la mentalità colonialista dei suoi tempi (infatti il personaggio è tra quelli contestati di recente, ma il caso ricorre). Bottego, impettito, è affiancato dai fiumi che lui stesso aveva riconosciuto (Omo e Giuba), modellati come combattenti africani sottomessi. In vita non va così: l’esploratore muore nel 1897 dopo aver sfidato i guerrieri abissini.
Porti e presse
Livorno celebra Luigi Orlando, fondatore dell’omonimo cantiere navale lungo viale Italia. Pensieroso, la mano sinistra in tasca, panciotto e cappotto: Lio Gangeri, nel 1898, lo fissa nei suoi abiti più amati. Anche Terni rende omaggio al lavoro: la gigantesca pressa (12 mila tonnellate, 17 metri d’altezza) che accoglie chi arriva in treno è un inno a sé stessa. Il colosso non è una copia: ha lavorato l’acciaio dal 1934 al 1994.
Glorie di casa (riciclate)
Raffaello Sanzio nasce il 6 aprile 1483 a Urbino: nell’opera di Luigi Belli (del 1897, in piazzale Roma) il Divin pittore, con tavolozza e pennelli, compare ben tre volte. È invece a Francesco Jerace che Campobasso affida il tributo al «suo» patriota e letterato Gabriele Pepe, issato nella piazza omonima nel 1913 alla presenza delle alte cariche del Regno. Medesimo (gettonatissimo) scultore ma inaugurazione fallita a Catania, dove qualche anno prima si era deciso di omaggiare il compositore Vincenzo Bellini: la municipalità chiama Jerace, eppure a creazione quasi completata contesta i costi. L’artista è esasperato, si ritira ma la statua non va persa: semplicemente risale la penisola per mille chilometri. Bergamo, infatti, proprio allora andava cercando un bel Gaetano Donizetti, altro genio della musica. Accordo fatto. Jerace cambia il volto, Bellini con gli spartiti diventa Donizetti e nel 1897 s’installa in Lombardia (Catania, nel frattempo, ingaggia Giulio Monteverde).
Una madre con la pistola
Anita Garibaldi è cesellata al Gianicolo di Roma. Mario Rutelli lavora dal 1905: nel primo bozzetto la donna è morente, tragica. Ma la figura non convince, lo studio si arena. Subentra il governo fascista, vuole un’immagine prestante, dinamica. Ne esce un’Anita in fuga al galoppo dalla fazenda di San Simon, camicia da notte e revolver in pugno (d’ispirazione una molto romanzata legenda di Giuseppe Bandi, uno dei Mille). Poi, altro stop: è troppo ribelle. «Mettetele in braccio il figlio Menotti», suggerisce Mussolini in persona. Alla fine, impetuosa-madre-devota, può salire sul piedistallo: ci ha messo 27 anni.
Eleonora e i massoni
Se Anita affronta rimaneggiamenti e ostacoli, Eleonora d’Arborea a Oristano fila liscia al traguardo. Giudicessa trecentesca, l’aragonese è sposa di Brancaleone Doria: con la sua Carta de Logu è considerata la madre del diritto del Regno di Sardegna. L’idea di dedicarle un simulacro raccoglie a Oristano consensi di ogni ordine e grado: si muove la prima loggia massonica di Cagliari, la Casa reale invia mille lire, nascono lotterie, le signore del notabilato partecipano alle sottoscrizioni. S’inaugura nel 1881, nessun azzardo iconografico: Ulisse Cambi va sul sicuro rielaborando una statua all’Italia.
I pensatori
Molte città del Sud consacrano luoghi cardine agli uomini del pensiero cui hanno dato i natali. Giambattista Vico, filosofo dei «corsi e ricorsi della storia», a Napoli troneggia nella Villa Comunale: ultimato nel 1862, il simulacro è firmato nientemeno che dal conte di Siracusa, Leopoldo di Borbone, fratello liberale di Ferdinando II. Bernardino Telesio, il filosofo della natura, legge un libro nella sua Cosenza, in piazza XV marzo (1914, autore Achille D’Orsi). Il recupero della statuaria romana ha all’Aquila uno dei suoi esempi più significativi: Sallustio, storico e senatore, nato nell’86 a.C. a una manciata di chilometri dall’attuale centro, è ritratto da Cesare Zocchi nel 1903. A Venosa, in Basilicata, «respira le prime aure di vita» Orazio, il sommo poeta: mettendo a verbale che «in 20 secoli non siasi fin ora eretto un durevole monumento», il consiglio comunale corre ai ripari nel 1889. Pronte 10 mila lire, commissione a D’Orsi.
La coda sparita
Il bronzo di Umberto I di Filippo Cifariello ha un burrascoso debutto. È l’11 giugno 1905: a Bari arrivano Vittorio Emanuele III, la regina Elena e la corte. Quando si svela l’opera, «chi sa» tira un sospiro di sollievo. Giorni prima, inferocito per i mancati pagamenti, l’artista aveva staccato la coda del cavallo, nascondendola in fonderia. Panico quanto basta per costringere la municipalità a pagare in fretta 32 mila lire. Segue repentino reinnesto della coda, con gran soddisfazione generale.